
E’ sempre un piacere ascoltare Ken Loach parlare del suoÂÂ cinema dell’estetica a cui si confà quando gira, dei motivi che lo spingono a creare unÂÂ gruppo di lavoro coeso perché «tutte le cose migliori della vita sonoÂÂ collettive», dice.
E’ un piacere ascoltarlo dichiarare che si possono «trovare storie che sianoÂÂ semplici in superficie ma che, per il solo motivo di raccontarle, riescano adÂÂ illuminare il mondo in cui viviamo».
E’ stato un piacere ascoltarlo in collegamento da Roma al cinema AstraÂÂ giovedì scorso, il giorno dell’uscita italiana di “The Old Oak”, ma solo fino aÂÂ quando due o tre spettatori impazienti hanno avuto l’alzata d’ingegno diÂÂ andare a lamentarsi alla cassa del cinema per la durata della meravigliosaÂÂ conversazione e il gestore, senza minimamente preoccuparsi del pensiero diÂÂ una sala piena di spettatori, ha pensato bene di interrompere di brutto ilÂÂ collegamento e dare inizio al film. Un comportamento davvero demenziale,ÂÂ soprattutto per una sala che si dichiara “d’essai”, ma questo è quanto…
Dal nero dello schermo, mentre ancora scorrono i titoli di testa, salgono delle voci che poi diventano fotografie in bianco e nero mentre i toni si fanno via via più concitati, qualcosa fa salire la tensione che poi si scioglie, conÂÂ un’autentica magia stilistica, nei fotogrammi del film che comincia.
Siamo in questo villaggio ex-minerario del nord-est inglese dove sta arrivandoÂÂ un bus carico di rifugiati siriani. E’ il 2016, la Brexit si è appena consumata eÂÂ una comunità già provata dalla chiusura della miniera con relativoÂÂ impoverimento collettivo mal reagisce a questo arrivo inaspettato. Uno degliÂÂ uomini che assiste alla scena non trova di meglio da fare che rubare laÂÂ fotocamera di una giovane profuga, Yara, fino a quando, nella colluttazioneÂÂ che ne segue per riaverla indietro, la macchina cade a terra e si rompe.
L’unico a mostrare empatia con Yara è Tj Ballantyne, il proprietario delloÂÂ scalcagnato “The Old Oak”, il pub del villaggio attorno al quale si snoderà poiÂÂ tutta la vicenda del film. Luogo simbolico della perdita, il pub diventa loÂÂ scenario delle ossessioni razziste («io non sono razzista ma…») di alcuniÂÂ soggetti verso i rifugiati, coloro che in fuga dalla guerra stanno pure peggioÂÂ ma che finiscono per essere il capro espiatorio di frustrazioni ormai macerateÂÂ dal tempo.
Eppure una parte della comunità reagisce, cerca di creare ponti tra le famiglieÂÂ dei rifugiati e gli abitanti del villaggio; Yara diventa il tramite di questo contattoÂÂ grazie alla sua macchina fotografica e alla sua grande capacità di empatiaÂÂ per i dolori degli altri: piano piano i racconti si intrecciano, le storie dellaÂÂ guerra si specchiano nei ricordi di chi ha perso lavoro e reddito (ma mai laÂÂ dignità!), i resoconti dei durissimi scioperi dei minatori sono ancora vivi eÂÂ presenti nelle foto appese alle pareti del pub mentre l’orrida Thatcher è soloÂÂ un fantasma già dimenticato da tutti tanto che nel film non viene nominataÂÂ nemmeno una volta, manco per sbaglio.
Grazie ad una volontaria e all’amicizia tra Yara e Tj, il pub rinasce diventandoÂÂ il centro di una nuova faticosa solidarietà che passa attraverso il cibo («chiÂÂ mangia insieme rimane unito») e dove indigeni e nuovi arrivati possonoÂÂ iniziare a fraternizzare. Per molti degli abitanti del villaggio, anche iÂÂ giovanissimi, sembra un modo per rivivere la solidarietà dei tempi delle lotteÂÂ operaie.
Ma il racconto della trama, coi suoi ritmi e scarti narrativi, e il suo catartico,ÂÂ splendido scioglimento finale passano davvero in secondo piano di fronteÂÂ all’ennesimo capolavoro del maestro inglese, tutto giocato sull’importanzaÂÂ della funzione estetica (ovvero: in che forma artistica ci viene mostrato ciòÂÂ che stiamo guardando), sulla forza della sceneggiatura del solito, fidatissimoÂÂ “compagno” di viaggio Paul Laverty e sulla disciplina di una visione moraleÂÂ del mondo che accompagna Loach da sempre. Stavolta sembra mettere ilÂÂ suo sguardo al servizio di un’idea altrettanto coraggiosa di tante altreÂÂ precedenti ovvero che è la relazione, la messa in contatto, l’atteggiamento
accogliente e solidale l’unico che può mantenerci umani perché, sembra direÂÂ il regista, solo chi viene da fuori e chi ci guarda con occhi “non abituati” puòÂÂ aiutarci a risollevare il declino dell’occidente. Sembrano i rifugiati, nel modoÂÂ che ha di raccontare la sua storia, gli unici capaci davvero di spostare gliÂÂ equilibri del passato e di rinnovare il presente. Nella scena che “illustra” i titoliÂÂ di coda, infatti, saranno inglesi e rifugiati insieme a portare in corteo il drappoÂÂ delle trade unions.
Molte sono le parole usate per descrivere il modo di Ken Loach di stare dietroÂÂ la macchina da presa e di come sia stato capace nel corso degli anni diÂÂ mantenere una coerenza stilistica e di temi ma è ogni volta una sorpresaÂÂ vedere il rigenerarsi del suo modo di fare cinema e allora vale la pena ancheÂÂ di usare le sue, di parole: «la macchina da presa deve osservare conÂÂ empatia, come se fosse uno spettatore, e per farlo deve stare all’altezzaÂÂ dell’occhio umano, preferibilmente con la luce naturale, magari che provengaÂÂ da destra, e chiedendo agli attori di essere se stessi, di “recitare” il menoÂÂ possibile ed ecco che subito viene fuori un’estetica».
Che altro aggiungere? Chapeau!, forse?
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