Quando si presentano casi di femminicidio come quello di Giulia Cecchettin, la ragazza barbaramente assassinata dal fidanzato Filippo Turetta, dal mondo maschile si leva solitamente un coro, che dice più o meno "non siamo tutti così", che avanza pretese di gentilezza, cortesia e cavalleria. Quasi un'autodifesa automatica che circola immancabilmente nei post e nei commenti social così come nelle chiacchere da bar.
Questa difesa, però, manca il punto centrale della questione. Ed è la sorella della vittima, Elena Cecchettin, a ribadire questo punto, in una lettera pubblicata dal Corriere del Veneto:«Viene spesso detto «Non tutti gli uomini». Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini [a compiere questo tipo di violenze, n.d.r.]. Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto».
Elena Cecchettin inquadra la situazione in un panorama più generale, dimostrando lucidità e capacità di analisi ammirabili considerando il lutto di questi giorni: il femminicidio non è un delitto passionale, ma un delitto di potere, e il femminicida non è un mostro, non è un'eccezione. Come i movimenti femministi (Non Una Di Meno in testa) sostengono da anni, egli è "figlio sano del patriarcato", il prodotto estremo di una cultura che si esprime anche nei gesti quotidiani e in atteggiamenti che possono sembrare innocui e banali.
Smantellare questa cultura significa affrontare un lungo lavoro che si dipana su almeno due piani.
Il primo piano è quello politico e sociale, che consiste nel riconoscere nel femminicidio l'esito estremo di una violenta e capillare dinamica di potere sottesa alla concezione tradizionale del rapporto tra uomo e donna. Come commenta Lucia Secchi Tarugi (avvocata e coordinatrice della Commissione pari opportunità del CNF), ci troviamo di fronte a «un modello socio-culturale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione, divenendo soggetto discriminabile, violabile, uccidibile» e che riproduce all'interno delle coppie e delle famiglie la stessa dinamica di oppressione che investe la società in genere. Questo modello può e deve essere combattuto non solo tramite l'intervento legislativo (che in questo periodo sembra orientato a iniziative di stampo securitario che non centrano la radice del problema), ma anche e soprattutto attraverso un minuzioso lavoro sociale quotidiano, rivolto alla protezione delle donne e all'educazione dei giovani e degli uomini. Da questo punto di vista, le richieste mosse dai movimenti e dalla base sono le stesse da anni: fornire più risorse a centri anti-violenza e strutture con fini simili, e istituire percorsi di educazione sessuale ed affettiva all'interno delle scuole, così da diffondere un nuovo tipo di cultura e un nuovo modo di pensare nelle ragazze e, soprattutto, nei ragazzi.
L'altro è quello personale, interno ad ogni uomo, che consiste in un riconoscimento della condizione privilegiata assegnatali dalla società e dalla cultura dominante. A questo fine, la risposta del "non siamo tutti così" appare come una difesa retorica decisamente inadeguata. Gli uomini dovrebbero, al contrario, rivolgersi a loro stessi e chiedersi in che modo siano o siano stati "così", in quale misura la violenza e il possesso siano ingranati nel loro atteggiamento nei confronti delle donne e dei più deboli, o comunque di soggettività che si ritrovano ad essere ridotte a un livello subordinato, secondario rispetto al ruolo di padre padrone che la cultura in cui siamo cresciuti ci ha imposto ciò a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare (aspirazione che, del resto, è spesso frustrata, fonte di ansia, senso di inadeguatezza e stress psicologico anche negli uomini).
Unirsi a questa lotta è doveroso, anche per gli uomini. Occorre riconoscere il nostro potere e cederlo, per una società democratica, giusta e priva di ogni tipo di violenza, anche quella più subdola e normalizzata.
La lettera di Elena Cecchettin:
https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/venezia-mestre/cronaca/23_novembre_20/lettera-elena-cecchettin-a165ccdc-5bd8-4db1-bdaf-963424ba0xlk.shtml?refresh_ce
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