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Morte della commedia all'italiana

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Viaggio disorganico nella storia della commedia nel cinema italiano recente

Il neorealismo è il linguaggio narrativo e cinematografico che suona il de profundis al trionfalismo delle opere di regime e all’ipocrisia apologetica delle pellicole con i “telefoni bianchi”. C’è, nell’Italia del dopoguerra, la voglia di raccontare senza mistificazioni la realtà, c’è la volontà di materializzare il dolore, di esternarlo, renderlo tangibile. E’ una forma di catarsi, ma anche un modo per ricostruire in fretta una storiografia, una memoria, per troppo tempo cancellate.

Ma ormai la guerra è finita da un pezzo. La ricostruzione è terminata col sudore degli italiani. Pella ha smesso di affamare i lavoratori, Scelba ha finito il compito di gendarme. Cominciano ad arrivare i primi segnali del benessere, le lambrette, le utilitarie. Calvino scriverà gelidamente ne "La speculazione edilizia": "Era venuta la democrazia, ossia l'andare ai bagni l'estate d'intere cittadinanze".
Ed è su questo andare al mare che la commedia all'italiana pone le sue fondamenta. Senza dimenticare la lezione di Rossellini, il nuovo cinema degli anni ’60 racconta l’anelito di epicureismo, il senso diffuso di onnipotenza, la corsa senza freno dell’italiano nuovo. Lungi dall’essere cinema d’evasione, la nuova commedia ha un ruolo, al contrario, di monito: la realtà è il suo punto di partenza, i limiti dell’uomo e del progresso i suoi approdi.
Certo, non si può non ridere della (e con la) nuova piccola borghesia. Niente le si frappone davanti, nessun ostacolo, nessun dubbio. Una famiglia intera, spavalda e sorridente, su una lambretta, certa di poter conquistare finalmente il mondo, sembra un’immagine disegnata dall’immaginazione di un Cervantes.
Il bovarismo della provincia italiana, la arroganza dei nuovi arrampicatori, la libertà dalle maglie di una religione sempre meno soffocante (suo malgrado), la sfrontatezza di chi ha conosciuto una volta per tutte piacere e bellezza come elementi essenziali dell’esistere: ecco, nascono da qua i ritratti di Gassman, di Sordi, di Tognazzi, di Totò. Divertenti e affascinanti al tempo stesso perché carichi di vizi e di tic, ma approfonditi psicologicamente; uomini, non macchiette.
Pietro Germi, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Vittorio De Sica, Nanni Loy, Ettore Scola, Dino Risi sono tra i protagonisti di questo periodo felice per il nostro cinema. Non altrettanto felice è lo spirito dei film tuttavia: la disillusione di un miracolo economico che non estingue le distanze sociali, il male di vivere che neanche i soldi cancellano, sono materia che sta a ricordare, comunque, l’amarezza e la sconfitta, come soluzioni quasi inevitabili. Cinema come monito, cinema di formazione, ma non tuttavia cinema didascalico: la morale esopica non è per fortuna contemplata, perché nella parabola dell’italiano ambizioso e sconfitto ci siamo tutti, senza distinzioni. A differenza della tradizione neorealistica, dalla quale pur prende spunto, la commedia all’italiana talvolta raggiunge forme espressive più propriamente naturalistiche, flaubertiane: “Un borghese piccolo piccolo” di Monicelli (che forse tanto commedia non è), attaccato da più parti da idioti dell’ultima ora per presunte connotazioni reazionarie, è un film che parla con un distacco quasi entomologico della meschinità della piccola borghesia massonica, vendicatrice, moralista.
La commedia all’italiana, nella sua capacità di cogliere le contraddizioni di un’epoca di sostanziale ottimismo, di smascherare la leggenda del miracolo italiano, di denunciare in modo scanzonato le ingiustizie, rappresenta anche il prologo a quell’ondata di contestazione e di rivisitazione ideologica della storia repubblicana che è stato il ’68. I germi di un discorso poi fattosi organico e articolato, c’erano già tutti nel cinema degli anni precedenti. Del resto, artisti, scrittori e registi, arrivano sempre con dieci-venti anni di anticipo rispetto a sociologi e filosofi. L’esistenzialismo non l’ha inventato Heidegger, così come la protesta non l’ha teorizzata Sartre.

La nuova commedia degli anni '70-'80 (in particolare quella di Sergio e Bruno Corbucci) rappresenta una fuga dalla realtà, un ricorso all'inverosimile, ma anche all'ancestrale. Dagli spogliarelli della Fenech (oltremodo dilatati e rallentati), spiati dall'immancabile buco della serratura, ai pugni erculei di Bud Spencer, il senso della nuova commedia consiste nell'esigenza di evasione dai problemi politici e sociali derivanti dalla tensione del terrorismo e dello stragismo, e dalla difficoltà della crisi economica. Si aprono così iperboli macchiettistiche, improbabili e volgarotte, ma al tempo stesso estremamente tangibili: sesso e scazzottata attengono infatti alla sfera dell'immediata comprensione, dell'adolescenza di ritorno, dell'umanità senza complicazioni. E il grande pubblico, spiazzato da una realtà che ritiene distante da sé, non può non apprezzare, nonostante le lievi pretese.
Nasce inoltre un fenomeno nuovo, talvolta interessante, talvolta irritante: quello della parodia linguistica, ovvero una riscoperta del parlare dialettale, non tanto per un'esigenza di realismo (non alla Paisà, per intendersi), quanto per giocare sulle cacofonie, i vizi, i paradossi delle lingue regionali: i Montagnani, i Pozzetto, i Banfi, gli Abatantuono, pur con risultati diversissimi per qualità e per dignità, appartengono appunto a questa nuova linea di comicità.

Fenomeno particolarissimo e del tutto riuscito, è invece la formidabile, e ingiustamente sottovalutata, saga di Fantozzi (ma limitatamente ai primi tre svolgimenti). La decadenza dell'Italia della crisi economica è qui affrontata in modo estremamente politico e engagé. L'efficace ricorso al grottesco (che già di per sé genera situazioni esilaranti e gag che riportano al meglio del cinema d'antan: Chaplin, Keaton e il cinema muto) fa da contorno a un'amara riflessione sul mondo del lavoro e sulla difficoltà dei rapporti umani nel mondo impiegatizio – piccolo borghese. Quello di Fantozzi, andando oltre un'osservazione superficiale e superando le, pur poche e persino giustificabili, cadute di tono, è cinema di denuncia cupa e crudele dei rapporti di forza sociali e economici, e del tentativo vano di adeguarsi a comportamenti socialmente vincenti da parte di chi è incapace di riprodurli. E' la lotta sterile di chi ambisce a un incubo di conformismo. E' la riflessione amara, persino eufemistica (e nel quadro dello stile grottesco è forse l'elemento di assoluta genialità), della sofferenza del mobbing, della endemicità del servilismo, dell'ipocrisia di chi, comandando con disprezzo, si definisce "medio progressista".

La commedia dei fratelli Vanzina è figlia invece della scuola dei Corbucci, ma compie una scelta di campo, anzi di classe, a favore del padrone (con il benservito all'anarchismo western del duo Hill-Spencer). Anzitutto sul piano geografico-linguistico: Roma e Milano la fanno da padrona, mentre la provincia è messa nel dimenticatoio; al massimo, giusto un po' di America, perché fa sempre tendenza. Dal punto di vista sociale, poi, la classe media è completamente rasa al suolo. Qui ci sono i ricchi e i morti di fame, in una contrapposizione manichea che fa di tutto per giocare a sfavore dei secondi. L'obiettivo sono le barche, le ville, i grandi ristoranti: la realizzazione arriva solo con la moneta. Poco importa, se la coniugazione dei verbi è incerta; poco importa se i protagonisti non hanno alcun interesse oltre ai soldi e alle tette. Arricchiti parvenu, evasori fiscali dalle camicie improbabili, sgrammaticati boriosi e saccenti, non sono messi alla berlina quale spaccato di una nuova Italia alla deriva. Sono al contrario l'unico possibile modello sociale cui ambire. Sono i vincenti. E' il trionfo di Briatore e la sconfitta di tutti gli sfigati che non hanno il panfilo da diciotto metri. Non c'è spazio per chi vuole percorrere altre strade, non c'è possibile alternativa: o Fregene o la Costa Smeralda, ogni altra possibilità è sintomo di quel velleitarismo di chi non ce l'ha fatta e vuol negare l'evidenza. Questa apologia del 'cafone' si concretizza con l'annullamento dell'ironia (nel senso di autoironia), e col trionfo del "lei non sa chi sono io". Con l'inevitabile corollario che ridere diventa davvero impossibile.
Di fronte alla vittoria del modello Briatore, non si può non rimpiangere la sfrontatezza di Felice Sciosciammocca di "Miseria e Nobiltà", il sussiego del conte Mascetti, o l'arroganza del megadirettore galattico di Fantozzi. Loro sì che avevano stile.

Giulio Gori



Post scriptum:
Ovvero sulla crisi della collaborazione tra cinema e teatro e sulla scomparsa dei mostri sacri.

Oggi si ripete che i mostri sacri del teatro non esistano più. Le cause sono presto dette. I mostri sacri erano considerati tali perché univano a straordinarie doti recitative anche una notevole popolarità. La circostanza era dovuta al fatto che i migliori attori di teatro si prestavano al cinema o alla televisione, diventando facce conosciute anche al grande pubblico. Come non ricordare Sarah Ferrati, Rina Morelli, Nora Ricci e Ave Ninchi nello sceneggiato “Le sorelle Materassi”?
Oggi è il contrario: al cinema recita (?) quasi esclusivamente chi viene dalla televisione e del palcoscenico non sa assolutamente nulla. Eppure di giovani attori teatrali bravissimi e avvenenti (elemento innegabilmente utile) ce ne sono molti. Ma si preferisce optare per personaggi (in questo caso ci sia concesso di non usare il termine persone) improbabili, dei quali l’unica interpretazione credibile è quella del Curculio plautino, il parassita sociale ai nostri danni.
A questo proposito i Vanzina, per il loro ultimo capolavoro, vantano di aver portato sul grande schermo Gigi Proietti. Premesso che questo genere di operazioni poco hanno di virtuoso e tecnicamente si chiamano “marchette”, è giunto il momento di smascherare questo attore-regista che, pur avendo fatto in carriera alcune cose buone (poche e tanti anni addietro), per tutto il resto ci ha inondato di una sequela infinita di porcherie. Una su tutte, due anni fa, quando portò a teatro “Liolà” di Pirandello... Ricordate chi fu l’attrice protagonista? Ma il mostro sacro Manuela Arcuri, naturalmente.

G.G.

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Ultimo aggiornamento ( Venerdì 10 Ottobre 2008 16:49 )  

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