Tonino Battista è oggi una delle autorità indiscusse nel campo della musica contemporanea. Compositore, direttore d'orchestra, docente, divulgatore Battista ha in se quel rigore logico ma al tempo stesso istintivo che gli permette di interpretare musica come se fosse la cosa più naturale del mondo. Fine conoscitore del repertorio moderno e del '900 è ad oggi colui che in Italia cerca di diffondere e anche storicizzare la ricerca musicale recente. A lui si deve l'istituzione e la direzione de PMCE ovvero l'ensamble stabile del Parco della Musica di Roma e a lui si ricollegano le esperienze di ensamble come l'Artisanat Furieux, il Logos Ensamble, Veni Ensamble. Ha studiato con compositori come Luigi Nono, Salvatore Sciarrino, Karheinz Stockausen , Franco Donadoni, Alvise Vidolin; i suoi maestri della direzione sono stati Peter Eovtvos e Leonard Bernstein. Tante le commissioni per le sue composizioni in gran parte d'Europa e non solo. Le sue competenze sono così varie che questo gli permette di essere un didatta fra i più aperti e intellettualmente onesti. Il suo gesto direttoriale è pari alla sapienza di sapere cosa veramente far uscire dagli strumentisti che generalmente non sono abituati ad una democrazia direttoriale. Ma soprattutto Tonino Battista sa molto e conosce profondamente la musica, il mondo dei suoni e tutto ciò che gira attorno. Pertanto intervistarlo è stato oltre che piacevole anche importante perchè in un momento difficile come quello che stiamo vivendo le sue parole, i suoi pensieri aiutano a comprendere meglio la nostra dinamica di vita. Perchè serve sapere ma anche saper dare e comunicare. Mai come in tale momento.
- Maestro mi parla della musica contemporanea, come la possiamo definire?
In senso stretto, si usa la locuzione “musica contemporanea” senza intendere un periodo di tempo preciso e delimitato. Agli inizi del secolo XX, precisamente nel 1919, il critico musicale Paul Bekker coniò il termine “Nuova Musica” per identificare quello che succedeva in quegli anni in Europa; nel secondo dopoguerra, si ricorse all’identificazione della musica di quel periodo come “musica del nostro tempo”, “contemporanea”. La storia della musica è piena di “nuovo”: inevitabilmente si arriva sempre ad un punto di svolta per cui guardandosi indietro c’è il vecchio e si spera di procedere verso il nuovo. Sarebbe banale dire che tutta la musica è contemporanea nel momento in cui viene composta. È vero e falso allo stesso tempo: è vero come dato storico-temporale, è falso quando il modello a cui essa si riferisce rimane ancorato al passato, e si emancipa a fatica dalla storicizzazione del principio estetico sottostante.
Oggi più che mai penso sia superato il concetto di Musica Colta contrapposto alle “altre” musiche: trovo che le proposte più interessanti vengano da quei musicisti che usano la musica senza dare conto delle distinzioni di genere. Un cambiamento sostanziale sta prendendo sempre più consistenza nella figura e nella formazione del compositore col recupero dell’idea di compositore musicista pratico, di colui, cioè, che pratica la musica “suonandola” e che non si rifugia nel distacco del compositore “teorico”, così come abbiamo visto in tanti casi a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Questo non significa che c’è un prima in cui si sbagliava e un poi in cui si opera correttamente: registriamo gli andamenti della società e delle sue manifestazioni in campo musicale cercando comunque tutto quello che di interessante e valido si possa incontrare. Spero sia chiaro che quello che per me conta sopra tutto è la qualità della musica e non l’etichetta.
- Tutto è iniziato con Schönberg?
Non andrei alla ricerca del capro espiatorio. L’evoluzione di un fenomeno sociale, come è la musica all’interno della cultura di una società, è sempre un processo collettivo, è quello che potrebbe essere studiato solo se si esonda dalla stretta relazione compositore-opera e si considera il fenomeno in termini di sistema. Perché Schönberg e non Debussy allora, o Skrjabin, Liszt o Wagner, e così via? Ciascuno di questi ha contribuito a importanti spinte al cambiamento della musica del loro tempo: è con il contributo di tutti loro e di tanti altri che si è arrivati al Novecento.
- Invece la Scuola di Darmstadt che cosa ha fatto?
Io la vedo così: finisce la seconda guerra mondiale e l’Europa è distrutta. Non sono solo macerie di laterizi disintegrati dalle bombe cadute sulle città, tedesche in particolar modo, ma sono disastri che hanno lo stesso grado di azzeramento rispetto a tutte le dimensioni, pubbliche e private: quella economica come quella urbana, quella sociale come quella politica e interpersonale. Ne siamo usciti completamente disorientati e ci siamo dovuti rendere conto che l’unica cosa da fare era ripartire da zero.
Proprio a Darmstadt, in Germania, contemporaneamente alla ricostruzione di tutto il resto, agli esordi dei celebri Seminari Estivi si è creduto di poter costruire le nuove leggi della musica, il nuovo linguaggio musicale, attraverso l’esercizio estremo del razionalismo strutturalista. Purtroppo abbiamo contezza di come funzioni una lingua: non si costruisce a tavolino, non si determinano le regole per poi cominciare ad usarla. L’Esperanto della fine dell’800 è fallito per questo motivo. Per fortuna gli artefici del cenacolo darmstadtiano erano menti illuminate ed hanno avvertito immediatamente la deriva verso cui procedeva quel progetto che pretendeva di controllare tutto a priori. Questo succedeva negli anni ’50.
Gli anni ’60 del novecento hanno poi favorito davvero una rinascita della “nuova musica” nello spirito della libertà e della creatività, più in sintonia con tutto il resto del fenomeno musica a livello globale. I seminari estivi di Darmstadt hanno continuato a rappresentare un appuntamento annuale molto importante dove si sono confrontate, anche aspramente, le idee più diverse sulla musica e il loro valore è inestimabile per aver alimentato il dibattito sulla nuova musica. Sul modello darmstadtiano si sono diffusi un po’ in tutto il mondo, non solo in Europa, appuntamenti periodici di incontri che offrono ai musicisti, soprattutto ai giovani, l’occasione di entrare in contatto con il vivo della musica del nostro tempo.
- Qual è il ruolo dell'esecutore contemporaneo?
Alla parola “esecutore” sostituisco volentieri quella di “interprete”. L’interprete ha a che fare con la pratica della composizione in quanto ha il compito di dare vita al segno. Il compositore immagina e costruisce architetture, l’interprete le realizza con la propria esperienza traducendole in suono. Voglio dire che l’interprete non esegue una ricetta, la interpreta con il suo vissuto, con la sua anima: quella ricetta diventa sua nel momento in cui la realizza. Per questo l’interprete non è solo un bravo strumentista, capace di far suonare il proprio strumento senza incertezza; egli è competente anche in termini di pensiero creativo-compositivo perché la sua arte è complementare alla scrittura del compositore.
Oggi l’interprete ha un compito diverso da quello, supponiamo, del ‘700. Finché non si è cominciato, nell’800, a concepire il programma da concerto come un percorso storico con musiche anche del passato, quindi, finché non si è cominciato a formare un repertorio di musiche di epoche diverse da quella contemporanea, l’interprete “parlava” la stessa lingua del compositore. Spesso il compositore stesso era interprete della propria musica. Da quando il repertorio ha cominciato ad includere musiche di un passato sempre più lontano, si è cominciato ad avvertire la necessità di ricostruire la prassi esecutiva che era legata allo stile e all’estetica di quelle musiche. Anche la scrittura, negli anni, ha cominciato ad adottare sempre più segni per lasciare indicazioni sempre più dettagliate di esecuzione. Quindi, la figura dell’interprete ha cominciato a diventare sempre più complessa e articolata nel dominio delle competenze specifiche dei vari linguaggi musicali che si affrontano.
Fondamentale nella formazione dell’interprete, di qualsiasi musica, stile, periodo, è la pratica della composizione come esperienza di organizzazione del pensiero in funzione della comunicazione attraverso i suoni. Questa pratica, associata alla competenza tecnico-strumentale, diventa preziosa per qualificare l’interpretazione del testo musicale, cioè della composizione, che può essere di altri, ma anche la propria. Nel caso della musica scritta, non vale l’assunto che il compositore sia il migliore interprete della propria musica. In questo caso compositore e interprete sono due ruoli distinti. È per questo che continuiamo ad appassionarci a “interpretazioni” diverse tra loro e non a “esecuzioni” - queste ultime, per definizione, dovrebbero essere tutte uguali, secondo un principio univoco di “giusto” che nella realtà non esiste.
- Pensa che un pianista, ad esempio, che deve suonare Stockhausen o Pennisi, debba avere una sorta di modalità d'approccio?
A questo pianista è richiesta la stessa modalità che è necessaria all’interpretazione di qualsiasi musica: competenza del linguaggio. È chiaro che la competenza dell’interprete non può prescindere dalla conoscenza della prassi musicale relativa allo stile, all’estetica, al periodo delle partiture che si accinge ad interpretare. C’è un parallelo, per me molto convincente, che vede in analogia la figura dell’interprete musicale con quella del traduttore di testi letterari. Quest’ultimo, non solo deve padroneggiare le due lingue, quella di partenza e quella di destinazione, deve anche riuscire a calarsi nel testo, conoscere perfettamente lo stile linguistico e il milieu culturale di provenienza dell’autore in modo da poter ricreare con nuove parole il meta-testo, quello che la mera traduzione letterale non sarebbe in grado di fare.
- Chi sono oggi per lei i contemporanei?
Ci sono molti compositori di oggi che sono legati all’estetica consolidata, di accademia, e, sebbene continuino ad essere contemporanei per definizione storico-temporale, non rappresentano appieno la “nuova” lingua. Con questo non dico che non c’è bisogno di loro e della loro arte, ma non posso definirli il “nuovo” nella contemporaneità. Sono davvero “contemporanei”, con l’attributo di novità, quei musicisti - e sono tanti - che sanno sintetizzare nella loro arte l’inarrestabile processo di cambiamento che la società globale, con le sue multiformi espressioni, produce e sperimenta. La musica, come tutti i domini artistici, a mio avviso deve saper interpretare e anticipare questo cambiamento, non rifugiarsi nell’accademia dove il pensiero spesso si cristallizza totemicamente attorno a verità relative
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