Pubblichiamo un estratto di un articolo pubblicato da Orientxx Italia in cui Tamara Taher (1) analizza la narrazione e le lacune dell'informazione sulla questione palestinese. L'articolo completo su https://orientxxi.info/magazine/articles-en-italien/narrative-dominanti-e-discorso-islamofobo-ripoliticizzare-lo-sguardo-e-la
L’islamofobia e la questione palestinese oggi: oltre la nozione coloniale di “umanità”
Mentre si distruggono le vite dei palestinesi e ogni loro possibilità di sopravvivenza nella Striscia di Gaza, si è detto di loro nel discorso politico dominante nel mondo “occidentale” e sui mainstream media (dalla CNN alla BBC, Fox News, Sky News, e su tutte le principali emittenti italiane come in altri contesti europei) che sono “selvaggi”, “barbari”, “terroristi”, “animali umani”, “figli dell’oscurità”. Alla distruzione materiale e culturale che il colonialismo d’insediamento sionista ha operato nei confronti dei palestinesi per un secolo, si è unito il mondo “civilizzato” per estromettere i palestinesi dall’umanità, dal novero degli esseri umani degni di vita e di lutto.
Per quanto scioccante e nauseante sia stato sentir dire queste parole, è stato immediato per i/le palestinesi riconoscere questo linguaggio, e in quali altri momenti e contesti lontani e vicini è stato utilizzato. Dopotutto, questo linguaggio non si è mai effettivamente interrotto nei confronti dei palestinesi. L’accusa di terrorismo e barbarie, nonché le descrizioni orientaliste della popolazione della Palestina come immeritevole della terra, arretrata, incivile e misteriosa, hanno fatto parte delle rappresentazioni coloniali dei palestinesi sin dai tempi del mandato britannico e sin dai primi insediamenti e viaggi dei coloni e dei rappresentanti del movimento sionista4. Soprattutto, la narrativa sull’inciviltà dei mondi e dei soggetti musulmani e dell’Islam si è ampiamente articolata nella War on Terror statunitense nel post-11 settembre 2001, e in tutto quel discorso pubblico “occidentale” che ha adottato la teoria dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington.
Questa narrativa è indelebilmente legata alla violenza imperialista statunitense ed europea nella regione mediorientale non solo per i palestinesi ma per tutti i popoli della regione, che l’hanno vista reiterata nella guerra in Afghanistan (2001), in Iraq (2003), nell’intervento della NATO in Libia (2011), nelle rappresentazioni dei musulmani (o dei percepiti tali) nella produzione culturale e mediatica nei paesi “occidentali”, e in tutti quegli strumenti del soft power statunitense ed europeo che hanno imposto l’assunto dell’arretratezza di tutte le società del mondo nelle condizioni dei loro finanziamenti per decenni. Il linguaggio sulla disumanità degli oppressi ha risuonato ampiamente anche per i popoli di tutti quegli altri contesti che sono stati soggetti e hanno resistito ai colonialismi moderni nel mondo. Infatti, mentre l’Unione Europea e molti dei suoi membri, inclusa l’Italia, hanno adottato la narrativa israeliana e l’hanno appoggiata e continuano a sostenerla fortemente, voci da tutto il mondo – dal Sud America all’Irlanda al Sud Africa, alle nazioni indigene e native del Nord America, ai contesti dell’Asia sud-orientale – hanno subito riconosciuto ciò che hanno visto dispiegarsi in questo periodo in Palestina.
Di fronte a tutto questo, diventa fondamentale chiedersi quale sia la concezione di “umano” e quale la nozione di “umanità” attorno alla quale ruota il discorso adottato dai contesti di un “Occidente” – inteso qui come costruzione politica ed economica e non come essenza ontologica – che non rappresenta più l’unico polo del potere nel mondo, e che continua a costruire i suoi “Altri”, inclusi l’“Islam” e l’“Oriente” da un lato per auto-rappresentarsi a se stesso, e dall’altro per legittimare con questa rappresentazione i suoi interessi geopolitici ed economici e i meccanismi di accumulazione, estrazione, produzione e riproduzione dell’ordine capitalista globalizzato.
Per riuscire a decostruire questa concezione, è innanzitutto importante andare a fondo di che cosa sia effettivamente l’islamofobia, elemento fondamentale delle narrative coloniali sia di lunga sia di più recente data. La psicoterapeuta palestinese Samah Jabr, direttrice dell’Unità di salute mentale presso il Ministero della salute palestinese, scrive nelle ultime pagine di “Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione” della problematicità del termine stesso, sottolineando come ciò che viene sottinteso nell’“islamofobia” sia il fatto che “l’odio, il razzismo e il passaggio all’atto criminale dell’aggressore siano giustificati perché egli soffrirebbe di una fobia, cioè di ansietà e paure irrazionali”5.
Questa nozione, sostiene Jabr, è fuorviante, nonostante sia quella più comunemente diffusa e condivisa, perché riduce la violenza contro i/le musulmani/e ai semplici momenti e atti di “odio” e violenza espliciti nel linguaggio o nell’azione, e li giustifica, in fondo, rinforzando l’idea che i/le musulmani/e siano effettivamente pericolosi e spaventosi. È proprio questo il meccanismo che sta al fondo di tutte quelle richieste di condanna e presa di distanza negli anni rivolte ai musulmani nel mondo di fronte ad attacchi terroristici di soggetti con cui nulla queste persone avevano a che fare.
Questa definizione dell’islamofobia è insoddisfacente, sostiene Suhaiymah Manzoor-Khan – autrice, poetessa e attivista britannica di origini pachistane che da anni si impegna sul tema nel Regno Unito. L’islamofobia, ci dice Suhaiymah, è razzismo anti-musulmano. In quanto tale, essa opera a razzializzare i soggetti musulmani, cioè a costruire un’identità musulmana con specifiche caratteristiche (spesso genderizzate) che legano la violenza alla “cultura musulmana” invece che ai rapporti, ai processi e alla dinamiche politiche in cui vivono le persone e le società6. In questo senso, non si tratta quindi di un evento, ma di un processo.
Il discorso islamofobo, “maschera” del razzismo anti-musulmano7, funge a obliterare i rapporti di potere e le strutture economiche di produzione e riproduzione del capitalismo, allo stesso tempo legittimandole. In nome della sicurezza contro il pericolo rappresentato dai soggetti musulmani, individuali o collettivi, si sviluppano le industrie della guerra, delle armi, dei confini, della sicurezza e della securitizzazione. In questo quadro, sul piano internazionale e locale, il discorso islamofobo abilita la pratica della violenza non solo materiale, ma anche simbolica, epistemica, psichica, politica ed economica nei confronti di milioni di persone. Allo stesso tempo, questo meccanismo di governo dei corpi musulmani non riguarda solo i musulmani. L’islamofobia «non ha mai riguardato veramente i musulmani»8 ma le forme di violenza e di controllo “in nome della sicurezza” che essa giustifica, aprendo così la strada anche al governo e al controllo di tutti i corpi nelle società iper-securitizzate del mondo globalizzato in cui viviamo.
L’utilizzo del discorso islamofobo nella narrazione della Palestina opera in questo stesso senso, e si inserisce all’interno della funzione del discorso sull’“umanità” e sulla “civiltà” che abbiamo visto ampiamente impiegare da parte di chi ha giustificato senza mezzi termini l’immane violenza che si è dispiegata sulla Striscia di Gaza in questi ultimi due mesi: oblitera le cause politiche della violenza, le relazioni oppressive in cui stanno i soggetti, e le loro posizioni, responsabilità e ruoli. La concezione di “umanità” messa in campo in questo discorso è quella che caratterizza il mondo coloniale, che Frantz Fanon definisce ne I dannati della terra come mondo “manicheo”, “scisso in due”, diviso a “scomparti” e in categorie contrapposte: l’umano e il disumano, il civile e l’incivile, il Bianco e il Nero. Proprio per questo motivo, per Fanon, la decolonizzazione passa per la liberazione, innanzitutto, dalla nozione coloniale di “umanità”. Non ci si libera dal rapporto coloniale, che agisce anche sul livello intellettuale e psicologico, impegnandosi a dimostrare al colono/colonizzatore la propria umanità: «la decolonizzazione è molto semplicemente la sostituzione di una “specie” di uomini con un’altra “specie” di uomini», «la decolonizzazione è veramente la creazione di uomini nuovi», liberi da relazioni oppressive e ingiuste.
1) Tamara Taher è una ricercatrice italo-palestinese. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Mutamento sociale e politico all’Università di Firenze e Torino. Si occupa di decolonizzazione epistemologica e materiale in Palestina, di islamofobia e razzismo anti-musulmano in Italia.
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