Arrampicarsi con dolcezza sui primi colli piceni e raggiungere Monte Vidon Corrado per trovare Casa Licini, ulteriore oasi, ove fosse possibile, di silenzio e frescura in un borgo che alle quattro di un pomeriggio di luglio sta assolutamente immobile, tagliato dalle ombre dei muri e con l’aria appena mossa da qualche bisbiglio dietro le imposte accostate.
È qui, nella casa del pittore degli angeli ribelli, perfetto spazio-vivo (arredi, suppellettili, memorie) per esposizioni d’arte, che si tenta di ricostruire percorso e figura di Oreste Bogliardi, partendo in realtà dagli spazi del Centro Studi con le prime due sale di “Ritratti” e “Paesaggi e nature morte”, con opere già marcate da un evidente senso teorico del dipingere: dall’iconico ”Autoritratto” del 1923 al quasi dittico di “Luisa Rapetti” che si specchia in “La camicetta bianca” del suo collega e compagno Cristoforo De Amicis, dai paesaggi ferrigni del Monferrato alle composizioni floreali dei primi anni ’60, questo primo settore è tutto concentrato sulla fase figurativa, diretta figlia dei suoi studi a Brera e di un soggiorno a Parigi (siamo alla metà degli anni Venti) e ripresa poi nei decenni successivi alla svolta astrattista. Eccoci quindi, con le parole di Paolo Fossati, nella fase delle pitture «novecentesche con accenni a sintesi di tipo puristico e metafisico, ma con una supremazia del colore e del disegno». In altre parole, una sorta di immersione nella temperie del nostro primo Novecento.
E’ spostandoci in casa Licini che le sezioni principali della mostra focalizzano la produzione più matura dell’artista lombardo, quella che lo indica come uno dei protagonisti dell’astrattismo italiano: l’allestimento dialoga a meraviglia con gli spazi della Casa e, ancora una volta, si crea una speciale atmosfera dove ogni cosa, pur essendo sempre stata lì, sembra essere stata disposta da uno scenografo ispirato. Il piano terra e il primo restano gli spazi delle suggestioni antiche: nello studio di Licini ci sono ancora colori, pastelli, pennelli e nel bagno si può giocare a rimpiattino coi riflessi del grande specchio e le boccette sulle mensoline.
Quando si scende poi nelle cantine, dove un meraviglioso restauro ci restituisce l’ambiente addirittura troppo “perfetto”, si riprende il viaggio tra le opere in mostra: il trittico “Composizione n.10”, “Composizione n.5” e “Composizione R3” (rispettivamente di Bogliardi, Ghiringhelli e Reggiani) ci restituiscono alla famosa mostra alla galleria Il Milione del 1934, quella che inaugura la stagione
dell’astrattismo italiano con la “Dichiarazione degli espositori” che viene a tutti gli effetti considerato il manifesto teorico del movimento.
L’avventura, per Oreste Bogliardi almeno, diventa alternante: seconda metà degli anni Trenta ed eccolo tornare di nuovo alle fascinazioni del figurativo che gli regalano soddisfazioni espositive ma lo vedono allontanarsi dallo sperimentale
slancio più della sua produzione fino a quando, ormai nei Quaranta, la stella di Picasso non illumina di nuovo sia il nostro che il sodale De Amicis: entrambi dimostrano di aver assimilato una lezione forse persino più grande di loro. Troviamo infatti esposte altre due opere (“Arlecchino” per De Amicis e “Figura”) con le quali il cerchio si chiude e il dopo Cézanne è ormai digerito.
La mostra rimane aperta fino al 7 gennaio 2024.
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