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Campo Marzio, è il 1984, doveva essere estate, Calvino stava in maniche corte. Il cineasta canadese Damien Pettigrew lo stava intervistando per realizzare, accadrà poi solo nel 2016, il docu-film “Lo specchio di Calvino” e l’intellettuale della leggerezza e della dolce ironia nell’esprimersi dichiarava tutta la fatica di scrivere, quell’ansia della pagina bianca che riusciva malamente a superare solo «verso le sei del pomeriggio», quando era finalmente riuscito a buttar giù «due o tre frasi scritte, riscritte e piene di correzioni». Ma ecco che, proprio in quel momento, magari suonava il campanello e arrivava qualcuno, un amico, un intervistatore, un giornalista, a sciogliere infine quell’incanto e quella fatica. E qui, nel film, Calvino parte per un’altra digressione che ci porterà altrove…
Ma quel che ci colpisce, di questo spezzone video presente in mostra, è la confessione disarmata, quasi una dichiarazione di poetica, che racconta tutta la fatica di arrivare al testo finito, alla forma voluta, all’incastro geometrico delle idee e delle parole che le indicano, a quella filigrana talvolta impalpabile che caratterizza molti degli scritti dello scrittore ligure. Come a dire che scrivere può essere un mestiere duro come molti altri, che la leggerezza dello stile è una condizione non-data e che invece va raggiunta a pena di un lavorìo incessante ed estenuato: in mostra sono presenti alcuni fogli manoscritti che dimostrano con chiarezza questo assunto.
Questo in breve accade alle Scuderie del Quirinale, fino al 4 febbraio: nell’omaggio per i cent’anni dalla nascita, sparisce qualsiasi intento celebrativo e si compone invece un percorso di scoperta di influenze, rimandi e contaminazioni che quel lavorìo incessante ha prodotto intorno a sé, sia in Einaudi sia nell’ambiente culturale del tempo, fecondando altri artisti che al suo lavoro letterario si sono ispirati (uno per tutti, la serie di acquerelli di Pedro Cano a partire dalle “Città invisibili”) o che hanno semplicemente raggiunto le stesse conclusioni del sanremese: leggere in mostra la definizione calviniana del “guardare” non può che far ritornare alla mente gli scritti teorici di Luigi Ghirri che, a proposito di fotografia, dice esattamente la stessa, identica cosa. Le consonanze culturali del tempo vanno al di là delle relazioni più o meno dirette tra gli intellettuali, perché sempre le idee circolano in maniera autonoma, ma qui è evidente come certe riflessioni siano state condivise e abbiano prodotto risultati comuni, relazioni immaginifiche chiaramente riconoscibili.
Ciò che è ulteriormente interessante dell’allestimento è l’aver risolto una questione non da poco: come si fa a realizzare una mostra con l’opera di un artista il cui lavoro vive quotidianamente nelle librerie o, volendo sistematizzare un po’ di più, nelle biblioteche? E poi, come evitare l’approccio frontale del museo classico dove le opere aspettano il visitatore? Qui in realtà è chi la visita che si muove dentro le suggestioni che essa offre tra cinema, musica, letteratura, fotografia, libri, pensiero intellettuale, scultura e pittura.
Insomma, una mostra che partendo dalla parola letteraria non smette di confrontarla con gli altri verbi artistici: le impalpabili realizzazioni di Fausto Melotti, le illustrazioni di Emanuele Luzzati, la dragologia delle fiabe rappresentata dal “San Giorgio uccide il drago” di Vittore Carpaccio (qui nella versione del 1516, quella della basilica di S. Giorgio Maggiore) o ancora le illusioni delle ipersuperfici di Domenico Gnoli o le già citate visioni fotografiche ghirriane (in esposizione soprattutto immagini dell’ultimissimo periodo) e libri, riviste, manoscritti, fotografie.
A proposito di immagini, un piccolo capitolo a parte è quello che riguarda i tanti ritratti di Calvino (persona schiva eppure tra le più ritratte della sua epoca), siano essi appunto le fotografie di Carla Cerati ma anche splendidi disegni come quelli di Tullio Pericoli o gli oli seriali di Carlo Levi che lo ritraggono in varie versioni/espressioni lungo i primi anni Sessanta, tutti ci guardano e ci interrogano come se fossimo noi a dover dichiarare qualcosa: che lo si intuisca o meno, dobbiamo a Italo Calvino molte delle suggestioni che hanno plasmato il secondo Novecento del nostro Paese e quindi la sua società e quindi noi. Partendo dalle radici che si innestano profonde nei valori della Resistenza di cui Calvino com’è noto fu parte (“Il sentiero dei nidi di ragno” su tutti), potremmo arrivare ad essere noi il Marcovaldo stralunato davanti alla città/fabbrica/mondo che si andava trasformando, trasformandoci. Chi non ha sognato di avere l’intransigente soavità di un Cosimo Piovasco di Rondò nel separarsi dalle strettezze terrene? Come fare a meno di cercare se stessi dentro l’armatura floscia del cavaliere inesistente? E come non sentirsi freccia scagliata con leggerezza ed esattezza nel nuovo millennio? Il favoloso viaggio di/con Calvino continua, le eredità importanti non si esauriscono mai.
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