La prima cosa è la luce: già solo entrare nel cortile immerge il visitatore in un tripudio di riverberi aranciati che producono un’aura, una sensazione visiva molto densa, quasi tattile. Che si decida di servirsi dell’ascensore o si affronti la salita al primo piano percorrendo le scale ripide e strette, tutto è atmosfera, scena, suggestione. Nemmeno il profondo silenzio, quel rigore quasi monastico del primo pomeriggio estivo - quando tutte le case dell’emisfero sono serrate per respingere l’assalto cocente della calura - basta a descrivere il mistero di questo luogo che è al tempo stesso un condominio e un museo, una storia artistica ormai consolidata e celebrata in ogni trattato novecentesco e una serie di anonime, malgrado le targhette coi nomi, cassette delle lettere che traboccano di fatture e pubblicità frementi dei più insignificanti gesti quotidiani.
Affacciarsi nel piccolo appartamento di via Fondazza, dopo aver atteso al pianerottolo lo scatto elettrico della serratura, dove uno dei geni assoluti dell’arte novecentesca ha vissuto e lavorato tutta la vita è quasi una sorpresa, un movimento incomprensibile e incongruo. Incongruo come il piccolo banco della reception che mima l’habitus museale e ti sposta - se ancora non lo avessi fatto tu stesso - nel ruolo definitivo che non è certo quello di ospite abituale di quelle stanze ma piuttosto quello incerto e scomodo di visitatore occasionale ed inatteso, per quanto non-pagante…
Perché alla luce aranciata che ormai ti porti dietro fin dall’impiantito del piano terra, e alle sue suggestioni, è sempre possibile affiancare la sua qualità più importante ovvero lo spessore tridimensionale che essa assegna alle cose, agli oggetti delle nature morte, alle bottiglie e alle statuine di terracotta, così come ai pennelli o ai vasi di colore, alle scatole basse dove si conservano fogli di carta di varie grane e grammature, alle confezioni di biscotti che contengono chissacché; persino alle macchie sui muri che - per la loro precipua natura - di tridimensionale invece non possono avere nemmeno il desiderio.
E in questa luce che continua a spandersi imperterrita e gioiosa negli ambienti, ti par di vedere - anzi ne sei assolutamente certo - il folletto saltellante di Luigi Ghirri che sposta oggetti, srotola manifesti dopo averli tratti dall’angolo polverosissimo in cui riposavano, cerca tracce di colore, accosta vasetti e bricchi, misura la luce con l’esposimetro non soltanto per decidere il tempo di esposizione ma soprattutto per assicurarsi che lo strumento la veda allo stesso modo in cui la vede e la vuole lui. Perché, se la creazione artistica è un processo molto complesso che richiede quindi molta ma molta fatica e studio e applicazione, è anche vero che di fronte a certi geniali interpreti dei loro strumenti - un pennello o un bulino di qua e una macchina fotografica di là - l’arte sembra svelarsi da sé, aggiungersi strato su strato alla realtà fino a trasformarla completamente davanti agli occhi di chi guarda.
Il modo in cui Luigi Ghirri vede la luce è lo stesso che fece disperare Giorgio Morandi quando scoprì che di fronte alle sue finestre - altro strumento fondamentale per chi con la luce ci lavora - sarebbe sorto un orrendo condominio giallo che avrebbe alterato per sempre l’equilibrio cromatico di ciò che vedeva. Non si fece sconfiggere, il pittore, dai cambiamenti che la città esigeva: Bologna andava trasformandosi e lui fece altrettanto. Escogitò un sistema di quinte e fondali orientabili che in qualche modo correggessero la luce, ristabilendone una sua luminosità, permettendogli così di continuare a vedere le sue nature morte come andavano viste. Ed è lo stesso modo in cui la vediamo anche noi: il nostro riverbero aranciato, quel giallo densissimo che ci accompagna come visitatori occasionali si rivela un artificio, il risultato di un lavoro, di uno scarto mimetico del tempo che avanzando cambia il mondo attorno a sé e dell’artista che, per non tradirsi, si adatta anch’egli.
Alla fine, il vero senso dell’esperienza è la separazione che si vive tra l’essere entrati in un appartamento, così raccolto come abbiamo accennato, e il trovare le sue stanze sottovetro, “nascoste” - per quanto riesca a farlo la trasparenza - dietro una irraggiungibilità assoluta: nulla che tu non possa toccare è davvero visibile agli occhi. Il senso della separatezza, dell’irrimediabilmente perduto per sempre malgrado il generoso tentativo delle opere di riportarti indietro un brandello di verità, di realtà, di elaborazione concettuale. Dentro un museo, non c’è tratto, non c’è mano che guidi il pennello; nemmeno la lastra di rame messa lì a bella posta - rimarcando l’assenza del bulino che l’ha incisa - riescono a trasmettere l’essenza che renderebbe speciali luoghi come questo.
Di come persino il letto più piccolo e spartano, per un uomo della stazza di Morandi poi, che si possa immaginare diventi d’incanto un mausoleo, un monumento a un addormentato che - adesso, in questo preciso istante e qui - nessuno può davvero testimoniare di aver visto dormire in questa stanza.
Ma noi abbiamo ancora un’ultima suggestione, la più fantasiosa, quasi sentimentale, proprio perché visitatori occasionali e che nessuno stava aspettando, riguardo quell’arancio di luce che ci insegue. Esso non è dato, ci diciamo, semplicemente dai riverberi di luce di un pomeriggio estivo di pieno sole che rimbalzano sui muri gialli tutt’attorno, no! Quel particolare motivo di rosso-arancio viene esattamente dal calore che quegli stessi muri intonacati emanano, dalla loro temperatura, dal salire verso l’alto dell’aria torrida bolognese che in via Fondazza ribolle.
In quel cortile - ne siamo certi - nelle altre stagioni il colore non potrà che essere diverso. E persino Giorgio Morandi se n’era accorto e lo aveva dipinto così, come Luigi Ghirri trent’anni dopo lo avrebbe fotografato.
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crediti fotografici: Antonio Desideri
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