
Dopo più di un anno dall’uscita presso Seuil non ce l’abbiamo ancora in italiano (e chissà se lo
avremo mai) mentre in Francia è stato salutato come un evento: “Lieux”, opera multidirezionale e
postuma di Georges Perec, è una specie di mappa estensiva di ciò che chiamiamo ‘città’ o forse di ciò che la letteratura può fare alle/delle città o, ancora, di come ci si possa muovere dentro uno spazio sequenziale (sempre la città o, udite udite, il tempo!) con criteri di libere associazioni: proiettando ulteriormente il gioco combinatorio, di come la letteratura possa farsi gioco della realtà e, pur seguendola alla ‘lettera’, possa frangerla in un gioco di specchi che riflettono all’infinito il nostro stesso esistere.
Lo so, sembra un nonsenso assoluto ma giocare con le parole e trarne il più alto senso letterario come hanno fatto Queneau, Perec, Calvino e gli altri della scuola dell’oulipo permette anche di correre questo rischio e - praticamente sempre - di vincere. Perché il quadrato latino, in questo caso di ordine dodici (e come dimenticarsi qui della ‘sestina lirica’?), e le arti combinatorie in letteratura hanno sempre il loro ritorno, la loro ‘quadratura’; il gioco è apparentemente infinito, come la matematica, ma ad un certo punto torna a combaciare, a riunirsi, non foss’altro che con noi lettori.
Perec ha fatto di questo affascinante rompicapo la spina dorsale di tutta la sua produzione e “Lieux” ne è praticamente la scheda madre.
Di cosa si tratta, allora? E’ presto detto e anzi ce lo dice lui stesso: «Ho scelto dodici luoghi, vie, piazze, incroci, a Parigi, legati a eventi o momenti importanti nella mia vita. Ogni mese, descrivo due di questi luoghi; la prima volta, sul posto (in un caffè, o per strada), descrivendo ‘quello che vedo’, nel modo più neutro possibile, enumerando negozi, qualche dettaglio architettonico, alcuni micro-episodi (il mezzo dei pompieri che passa, una signora che lega il cane prima di entrare in gastronomia, un trasloco, i manifesti, il traffico etc.); la seconda volta, non importa dove (da me, al caffè, in ufficio) descrivo il luogo come si staglia nella mia memoria, i ricordi legati ad esso, le persone che vi ho incontrato etc. Ogni testo sarà rinchiuso in una busta, sigillata con cera. Dopo un
anno, avrò descritto ciascuno di quei luoghi due volte, una volta secondo la mia memoria, l’altra con il metodo della descrizione reale. Andrò avanti così per dodici anni…».
Semplice, quindi, anzi semplicissimo. Un apparente ‘giochino’ che, da gennaio 1969 a dicembre 1980, avrebbe dovuto produrre 288 buste sigillate, ognuna contenente una delle descrizioni e, proprio per questa struttura così rigidamente libera, non sarebbe stato possibile avere idea del risultato finale: un romanzo? Un memoir? Una tavola pitagorica? Un viaggio dentro il cervello di uno scrittore? Chissà.
Perché poi - ah! i casi della vita - il progetto viene abbandonato nel settembre 1975 e il ‘libro’ si ferma a quella che sarebbe dovuta essere la busta 138 e finisce così per essere il laboratorio stesso dove Perec ha lavorato, completamente spalancato di fronte ai nostri occhi di lettori con le sue 575 pagine di appunti, biglietti, immagini, note, disegni, divagazioni; tutto l’armamentario insomma che fa di uno scrittore appunto infinito come lui il centro di un universo in con
tinua evoluzione e che sfugge a qualsiasi esegesi che voglia dirsi definitiva.

Ultima tappa. Come fare per raccontare una città così policentrica e multistrato come Parigi, la cui letteratura è già sovralimentata da decenni di mito? Come confrontarsi con lo spleen baudelairiano, con un’altra opera-mondo come i “Passages” di Benjamin oppure con le veloci pennellate sentimentali di Julien Green (per tacer del cinema)?
Il rapporto di Perec con la capitale francese è già universalmente noto: talmente forte e radicato da meritare una piccola ma meravigliosa pietra miliare come “Tentativo di esaurimento di un luogo parigino” (1975) ovvero l’esperimento non soltanto letterario di descrivere per tre giorni di seguito ciò che passava davanti ai suoi occhi a Place Saint-Sulpice, operina che della spina dorsale “Lieux” sugge il midollo, così come accade anche al suo capolavoro “La vita, istruzioni per l’uso”, altro punto nodale del rapporto tra uno scrittore e la sua città. Evidentemente allora questa forma aperta e provvisoria che è il lavoro letterario è utile per tracciare una rotta possibile, un probabile algoritmo
ante-litteram, un ulteriore gioco nel giardino delle parole e delle cose. In effetti Seuil ha
digitalizzato il libro (https://lieux-georges-perec.seuil.com/) ed è quindi perfettamente agevole usarlo come oggetto online, saltando da un punto all’altro, combinando casualmente percorsi distanti, incrociando destini e ‘castelli’. Il risultato è ancora una volta il gusto - uno degli innumerevoli possibili - della letteratura.
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