Orfeo è forse uno dei miti che gode di una grande parte di messe in scena, sia in prosa che in musica. E' uno dei miti che più rappresenta l'uomo e il suo limite umano, confine estremo fra l'entità terrena e quella astratta. Quello che colpisce ancora oggi è che c'è sempre un fortissimo interesse verso la consuetudine del divenire, del riscoprire e nel celare tutto un mondo di emozioni e di rimozioni che spesso confluiscono nel doppio della vita, ovvero l'essere e l'avere, la vita terrene e quella ultraterrena, la guerra contro la morte e l'invecchiamento della carne, del corpo quindi. Per questo chi ha ascendenze cattoliche e religiose in genere (nel senso cristiano) si ferma al semplice mito, dimenticando e non scoprendo tutto un mondo fatto di ricercatezza interiore, di riscoperta e soprattutto di raffronto con realtà che spesso ci sfuggono. D'altronde il mito di Orfeo si perde nella notte dei tempi come tutti i miti. Sarà un caso, ma per i greci che avevano molto forte il senso spirituale della vita terrena, Orfeo era un riferimento che non dava dubbi nella sua flessione o riflessione sullo spirito. Oggi, soprattutto dopo le forti conseguenze del romanticismo, dove la spiritualità è spesso esibita e mostrata, comprendere Orfeo non è semplice, particolarmente se si coniugano diversi linguaggi, contemporanei certamente. E' quello che ha fatto Daniela Terranova nel mettere assieme le tracce di un'opera di Luigi Rossi (compositore foggiano vissuto nel XVII secolo) e crearne una propria, in una sorta di traccia sonora e visiva. Quello che ne è uscito fuori nella prima rappresentazione al Teatro Verdi di Martina Franca (che lo troviamo inadatto per allestimenti operistici) è proprio un perfetto connubio fra il passato e il presente e la Terranova non ha fatto altro che giocare ancora sul doppio, sulla dualità e sulle pulsioni che il confronto fra le due parti spesso sollecita. Il resoconto è sorprendente, la duttilità registica e di adattamento e di riscrittura del libretto da parte di Fabio Ceresa è assolutamente entusiasmante, così come è coinvolgente la sua lettura registica, light e withe. Perfetto il cast dal controtenore Ilham Nazarov nel difficile ruolo di Orfeo, a Kristel Partna, bionda Euridice. Sorprendente è stata poi la perfetta intonazione con un mondo dissonante interiormente ma apparentemente perfetto da parte di Giampiero Cicino inquietante maschera nel ruolo di Venere, un possibile Caronte in un andirivieni di situazioni e di emozioni, di spigolature e di riferimenti, spesso onirici, spesso kubrichiani. Bravi tutti gli altri interpreti e la sicura e pulita direzione di Carlo Goldstein a capo di un Ensamble dell'orchestra stabile del Festival. Forse la vera traccia di questo Festival della Valle d'Itria è da ritrovare nel coraggio di allestire opere complesse, non adatte ad una prima lettura ma a un continuo approfondimento, cibo per la mente e per l'anima. Triola con la sua esperienza ha provato ad osare e a portare due nuove opere molto diverse fra loro ma molto affini per i significanti. Ma in un'Italia amante del bel canto e delle regie tutte uguali e delle musiche che si sa dove iniziano e dove finiscono, è veramente impresa non facile provare ad aprire nuovi sentieri, complessi si ma tanto intensi e intricati, come è la vita.