Angelo Marenzana - Omicidio al civico 7 - Ed. TimeCrime
La Germania e l’Italia hanno avuto due modi diversi di rapportarsi con il passato rappresentato dal nazismo e dal fascismo. Se la prima ha fatto i conti con la propria storia, la seconda quando lo ha fatto, lo ha fatto poco e male.
Tanti i motivi di questo comportamento che però non possiamo certo affrontare in quest’occasione, quello che però possiamo dire è che il comportamento a cui abbiamo fatto riferimento si ritrova anche nel noir. Infatti, se per quanto riguarda il nazismo e ciò che esso ha rappresentato la produzione letteraria può vantare addirittura una casa editrice specializzata, EMONS edizioni, in Italia sono rari i libri che trattano l’argomento.
Possiamo ricordare: “ Il delitto di via Crispi ” oppure la raccolta curata proprio da Marenzana “ Crimini di regime “.
Con “ Omicidio al civico 7 ” ci troviamo ad Alessandria, città abitudinaria scossa da un omicidio, quando è avvenuta l’aggressione all’Etiopia e la Società delle Nazioni ha decretato le sanzioni all’Italia, con conseguente scarsità di qualunque merce nei mercati e le consegne delle famiglie dei propri beni nell’interesse della patria, quando addirittura vengono disselciati i binari del tram per ricavare acciaio da destinare alle truppe impegnate in Etiopia.
Anche il commissario Augusto Maria Bendicò deve fare i conti con il clima che il fascismo innesca dovunque per “tutelare la sicurezza dei cittadini“.
Un clima che si respira anche nello svolgere le indagini: se da una parte Bendicò si muove tra dubbi e riflessioni sul modo di agire, dall’altra abbiamo la magistratura di stretta obbedienza al regime e l’OVRA, che impongono efficienza e rapidità nella risoluzione delle ìndagini, nell’individuare e colpire il responsabile dell’omicidio. Anche solo i pensieri, siano essi valutazioni o punti di vista, non sono assolutamente ben visti e devono essere in linea con il regime.
Un commissario restio ad indagare su un caso di omicidio ma che, spronato dalla moglie Betti deceduta e trasformata nella sua coscienza, si riconosce ed immedesima nel dolore altrui e vi si dedica appieno nonostante che spesso rimpianga il disbrigo di pratiche burocratiche come ad esempio lo stilare verbali di ammende .
Bendicò si arrovella attorno ai pensieri che mettono in discussione il proprio lavoro: “ che razza di poliziotto sono visto che perdo il senso della professione “.
Le pressioni sul commissario affinchè velocizzi la risoluzione del caso e non metta in discussione i risultati ottenuti arrivano ad essere vere e proprie minacce di provvedimenti disciplinari da parte del questore. Di fronte a questo clima ostile Bendicò contrappone il suo metodo investigativo che vede:
1) l’osservazione come parte fondamentale di chi indaga.
2) l’avvio dell’indagine con il piede giusto come la parte più impegnativa.
3) tenere in considerazione l’informazione: obiettivo principale di un poliziotto.
4) una indagine che abbia un senso deve tenere come punto di riferimento la certezza della colpevolezza.
Nonostante tutto si dimostri a lui sfavorevole, non demorde ed il risultato, a fatica, arriva.
Un poliziotto di provincia che deve fare i conti con qualcosa di più grosso, che riesce ad avere la meglio non solo rispetto alle già citate pressioni che gli piovono dall’alto, ma che riesce anche a fare luce su operazioni finanziarie, investimenti immobiliari e fallimenti pilotati in cui gli uomini del regime sono coinvolti.
Un commissario che filosofeggia sul senso della morte violenta; che frequenta il bar, che “ emana odore di stanchezza umana “ in quanto luogo per capire e conoscere il contesto che si muove attorno all’omicidio e che può risultare utile all’indagine. Ed alla fine arriva alla conclusione che ogni omicidio porta la firma dell’assassino, che funziona sempre la vecchia storia: si ammazza per la cosidetta gelosia.
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