
Ci aveva abituato fin troppo bene, pur senza allontanarsi troppo dagli stilemi del genere, l’ottimo Manzini. Il suo quasi impercettibile scavo psicologico, quell’indugiare sui personaggi con una lingua apparentemente svagata, che parte distratta e pian piano mette a fuoco, è sempre arrivata. Mettere insieme una Questura, tenere un gruppo di figure eterogenee, tratteggiarne i caratteri e farli esprimere con credibilità: è questa la costruzione realizzata attorno al mattatore Rocco Schiavone. Stavolta però l’alchimia non si ripete: in molto meno di duecento pagine non ci si avvicina neppure, ad imbastire una trama. L’ennesimo episodio, quello dove Schiavone e Brizio inseguono Furio che, a sua volta, sta braccando Sebastiano in Sud America (da cui il titolo volutamente canzonatorio) per chiudere i conti una volta per tutte con il loro passato di amici inseparabili sembra un esercizio stanco, più un trattamento
per la serie tv che un romanzo autonomo.
Un collage di scene (interno notte, aereo in volo, luci soffuse) che si susseguono quasi casualmente, dietro il quale si respira una stanchezza inedita che stavolta non riguarda il vicequestore ma proprio l’autore, colui che dovrebbe tirare i fili della narrazione e che invece inciampa in un cliché davvero stinto. È forse un esercizio sui personaggi, rimanendo lontani
sia da Aosta che da Roma, a cui l’ambientazione esotica praticamente inesistente toglie respiro: invece di esaltare le “spalle” del mattatore, tutti i caratteri svaniscono in una nebbiolina vaga, pigra, negletta. Le due cacce concentriche (come detto, cercare Furio per arrivare poi a Sebastiano) non comunicano pathos ma una stanchezza mai vista, nemmeno negli episodi più cupi della serie, con un non-finale quasi imbarazzante per pochezza e
approssimazione. Sembra manchi la verve, come se l’episodio fosse stato scritto da un’altra mano, da una “sensibilità” in tono minore, un esordiente in cerca della misura giusta. Insomma, una battuta d’arresto, un passo falso, uno strano interludio che non va da nessuna parte. Come uno di quei sogni che agita le notti di chi lo fa e che al mattino non lascia nessun ricordo, solo
vaghe sensazioni, uno straniamento senza motivo.
Eppure la tridimensionalità, lo sbozzo a tutto tondo della saga-Schiavone aveva dato prova migliore di sé, aveva respirato a pieni polmoni vivificando sia le trame che, come detto, soprattutto la finezza psicologica dei caratteri.
Naturalmente non è la fine della storia, dato che ancora molti sono i fili da seguire, e un interludio in tono minore ci sta: lo si capisce da subito, forse, già prendendo in mano il volumetto e saggiandone la “leggerezza”. Una lettura veloce, che non occupa più di una bruosa sera d'autunno.
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