Dopo sei anni di attesa, è tornato in questi giorni in libreria il commissario Adamsberg, creatura romanzesca della scrittrice francese Fred Vargas. Il nuovo romanzo si intitola Sulla pietra, è uscito in Italia come tutti gli altri per Einaudi, ed ha avuto in Francia un'accoglienza piuttosto eterogenea: chi ha scherzato sul fatto che dopo dieci anni Vargas potesse vivere una fase di stanca del suo personaggio, chi ha difeso la scrittrice e la sua opera più per dovere che per convinzione, chi si è concentrato ironicamente sul coté per così dire turistico-territoriale della vicenda dato che essa si svolge in Normandia e ne ripercorre qualche cliché, chi da ultimo ha puntato l'attenzione sul coprotagonista del romanzo che sarebbe, nella finzione, un discendente di Chateaubriand per evidenziare come Vargas allarghi sempre le sue storie a temi culturali che le travalicano, che vanno oltre il semplice svolgimento del plot.
Eppure, il fascinoso commissario, con addosso le sue perenni t-shirt nere, ha stuoli di fan al di qua e al di là delle Alpi; le sue origini letterarie risalgono al 1991 con L'uomo dei cerchi azzurri e hanno avuto un successo tale da ispirare successivamente una serie-tv, film e telefilm. Il suo carattere fuori dall’ordinario, per il quale un suo collega canadese conierà in Sotto i venti di Nettuno la fortunatissima e tutto sommato aderente definizione di “spalatore di nuvole”, lo rendono senz’altro il fulcro della serie letteraria; non per questo però Vargas ha mai rinunciato a dotare il protagonista di un riuscitissimo gruppo di comprimari (dai cosiddetti “quattro evangelisti” presenti in alcuni episodi fino alla squadra del XIII arrondissement parigino composta di individualità notevoli) che insieme al mattatore Adamsberg rendono le vicende narrate uno spazio quasi tridimensionale dove voci e personalità diverse rimbalzano e si completano alla perfezione.
Questo decimo episodio torna ad ammantarsi, come abbiamo accennato, di atmosfere normanne anche se stavolta l’ambientazione è meno gotica del solito e si nutre di una serie apparentemente infinita di omicidi che sembrano, almeno all’inizio, avere una ritualità misteriosa. Si riveleranno invece ben radicati tra gli affari, le bassezze e le idiosincrasie degli esseri umani. Come si capisce dal titolo, punto di svolta per le strampalate divagazioni adamsberghiane si rivelerà essere la pietra di un dolmen situato a poca distanza dal paesino fittizio di Louviec nel quale la trama si dipana, dolmen che il commissario userà come una sorta di lettino dello psicanalista al contrario: vi si stenderà al sole per riflettere e mettere insieme le elucubrazioni per cui i suoi lettori lo conoscono e lo apprezzano.
Le vie che lo portano a risolvere i casi delittuosi di cui è protagonista sono sempre degli autentici arabeschi: come avrebbe detto Flaiano dell’Italia, la linea più breve tra due punti è per Adamsberg proprio l’arabesco, un percorso che non ci è dato conoscere ma che, una volta sciolto, appare al lettore perfettamente credibile per quanto straordinario. D’altronde, sorprendere i lettori è uno degli scopi per cui certi giallisti scrivono le loro storie: qualcuno accompagnando il lettore passo dopo passo per scartare di lato soltanto all’ultimo, altri lasciandolo al palo da subito e stupirlo poi alla fine rovesciando completamente tavolo e prospettive. Questioni di stile, si direbbe.
Stavolta però sembra esserci in effetti quella stanchezza denunciata da qualche commentatore d’oltralpe: come se Vargas fosse arrivata lunga, fiato corto e respiro affannoso, con una trama che si infittisce magistralmente nella prima parte del romanzo ma poi si perde in andamenti vischiosi, quasi artificiali in certi dialoghi, in un procedere vagamente didascalico, in lunghe spiegazioni che coinvolgono poco. Non dico ci si annoi, non è facile in una trama gialla che comunque Vargas maneggia da decenni, ma è come se stavolta manchi il guizzo, la capacità di descrivere facendoci vedere immagini e situazioni autenticamente romanzesche. Troppe parole, in alcuni casi; troppe spiegazioni per niente affascinanti, in altri. Come se Vargas avesse voluto inzeppare la narrazione di una pletora di personaggi e relative vicende che però finiscono per rivelarsi inutili, ridondanti, poco credibili.
Forse un passo falso per il nostro Adamsberg, figura ormai centrale del giallo europeo, ma questo incidente di percorso non vieta a chi non le conoscesse ancora di recuperare le prime magistrali storie e a chi le avesse già lette tutte di rituffarsi nei momenti migliori di una scrittura che ha saputo affascinare e affascinare davvero molto. In un caso o nell’altro, quindi, non possono esserci dubbi: lunga vita a Jean-Baptiste Adamsberg!
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