Il crollo del sistema sviluppista ci impone, oggi, di trovar percorsi alternativi al soddisfacimento dei nostri bisogni, reali o apparenti che siano.
Per Serge Latouche le risposte vincenti sono nell’altra Africa, fatta di relazioni umane e sociali. L’economia risulterebbe, così, incorporata nel sociale. Contro l’astrattezza che il “denaro freddo” delle borse, il gioco anonimo domanda-offerta e l’occupazione alienante delle multinazionali impongono.
La parola chiave è “altro”.
Una chiave di lettura tipicamente heideggeriana mi suggerisce che gli uomini, venuta meno la loro sensazione di onnipotenza, si siano accorti della possibilità di direttive economiche parallele. La constatazione della fallibilità del sistema economico competitivo può reinventare la modernità. Commercio equo e solidale, consumo critico, finanza etica e turismo responsabile per una prospettiva gestionale diversa. Un mercato economico è impostato innanzitutto da coordinate culturali, scelte politiche e umane: le merci del sud del mondo, importate e prefinanziate da consorzi di organizzazioni no profit, sono tracce di vita tramate di progetti. Sono uomini e donne che tentano di riappropriarsi della loro identità, spesso sottovalutata dalle esigenze benestanti dei colonizzatori nordici.
Nell’impegno dell’acquirente, preso direttamente col produttore, si condensa la rivoluzionante inversione di marcia dei mercati solidali: divieto del lavoro minorile, di pesticidi e uso intensivo del territorio. L’organizzazione senza fini di lucro Corr (the Sute Works) cerca di valorizzare il ruolo delle donne del Bangladesh, come pure la Mahaguthi, con sede a Katmandu, in Nepal. L’impegno di tali cooperative prevede la formazione professionale degli stessi lavoratori localmente impiegati, costruendo così le basi per assemblare, in futuro, un prodotto finito senza ausili esterni.
Parc, Ciap, Copavic, Craft link (rispettivamente Palestina, Perù, Guatemala, Vietnam) organizzano la lavorazione tradizionale di tessuti, artigianato, bigiotterie, resistendo così alle mire omologanti della globalizzazione. Inserire nel processo di mercificazione quanto più possibile di se stessi, per reiterare culture e storie. Ecco il valore aggiunto di un prodotto solidale certificato, il cui acquisto ci da l’occasione di fornire pari opportunità di sviluppo ad artigiani a piedi scalzi.
E’ fondamentale non perdere di vista la trama.
Il lavoro rende liberi (senza far pubblicità alle esigenze mediatiche di Hitler) e consapevoli titolari di diritti e doveri. Il diritto alla felicità, a una vita dignitosa passa attraverso il lavoro. E quell’occupazione permette a migliaia di famiglie di mandar a scuola i propri figli. La rete “Botteghe del mondo”, tramite cui CTM Altromercato (tra i principali importatori dei prodotti del commercio solidale) promuove il consumo critico, è un allestimento cosmopolita.
Un’ideale di giustizia alto, altro.
“Il Villaggio dei Popoli” è cooperativa di consumo a Firenze dal 1990 e associazione di volontariato dal 2004 (www.villaggiodeipopoli.org). Fondata da Edward Butler, oggi l’approccio multiculturale si ripropone nelle sedi di via dei Pilastri, dell’Isolotto in via Modigliani e a Empoli, in via del Papa, 73 (dalla collaborazione con l’associazione onlus “Gruppo Empolese Emisfero Sud”). La bellezza della diversità, l’arricchimento dell’altro.
Troppo spesso ci accontentiamo di acquistare prodotti non certificati, rincorrendo il quantitativamente migliore. L’isteria del consumismo scade in mezzi, tappe di produzione eticamente non sostenibili. La filiera corta che il commercio equo prevede traccia pezzi di mondo e ce li regala: sono sari indiani riciclati per farne una borsa richiesta da gusti e mode occidentali o sacchetti, ricamati con punto croce, donati dalle donne palestinesi all’acquisto di sandali qualitativamente ottimi (www.improntedipace.org). Non dobbiamo guardar troppo in là per intuire la lungimiranza di tali meccanismi: L’“Accioccolata Quetzal” è la prima cioccolata equa e solidale. Prodotta nel laboratorio artigianale della cooperativa sociale “Quetzak”, è impegno di produzione di un gruppo di donne del sud Italia; zucchero di canna raffinato, pasta amara di cacao per evitar di incrementare le affiliazioni all’economia criminale dilagante.
E’ affascinante scoprire che si può ricostruire la storia della questione palestinese prestando occhio alle diverse collocazioni dei luoghi di produzione, negli anni, del cous cous. Il problema è quanto siamo disposti al ragionevole, all’informazione di pro e contro di un prodotto. Spesso siamo troppo pigri per farlo. E poi è comodo comprare una maglietta da H&M a cinque euro, senza saper nulla del suo trascorso.
Se il denaro viene incoronato fine a se stesso, rischiamo di perder di vista le nostre esigenze di animali sociali. Se il parametro resta l’efficienza non saremo capaci di intravedere strategie conformi al lento sviluppo delle comunità del sud del mondo. La nostra disinformazione, consapevole o no, è complice di salari mal pagati, condizioni di vita disagiate, infanzie senza gioco, abuso del territorio tipiche di Ciquita, Nestlè, Unilever e tante altre. Saper che tali aziende usano pesticidi anche durante gli orari di lavoro dovrebbe scandalizzarci. E far inciampar un sistema economico-finanziario disposto a tutto per la massimizzazione dei profitti.
Il commercio equo e solidale sfida il capitalismo moderno, e spesso vince.
Lo sviluppo sostenibile è dono. Non beneficienza!
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