Ieri le Nazioni Unite hanno annunciato che la popolazione mondiale ha ufficialmente toccato gli 8 miliardi di persone. Si tratta della crescita più veloce mai registrata, considerando che il traguardo dei 7 miliardi è stato toccato nel 2010, solo 12 anni fa.
Come noto, l'aumento della popolazione mondiale è dovuto in gran parte alle conseguenze della Rivoluzione Industriale: questa è rimasta, infatti, al di sotto del miliardo fino al 1800 ed ha conosciuto una crescita esponenziale negli anni successivi. Le stime per il futuro, inoltre, sono discordanti ma comunque non rosee: si aspetta che la popolazione mondiale tocchi i 9 miliardi nel 2037 per poi raggiungere il picco dei 10 miliardi nel 2050, e tornare infine a diminuire.
Perché queste stime prevedono una diminuzione? Semplicemente perché una popolazione del genere non è sostenibile dal pianeta, ed è destinata a diminuire per la carenza di risorse e per le lotte che essa causerà in futuro, secondo l'opinione concorde di quasi tutti gli analisti. In un mondo già posto sull'orlo della crisi ecologica, questi numeri sono preoccupanti perché, finché la crescita avviene nell'attuale sistema economico e seguendo l'attuale modello di sviluppo, rappresentano una minaccia diretta alle risorse del pianeta, alla biodiversità e al clima.
Naturalmente, auspicare una diminuzione drastica della popolazione, per mezzo di un qualche tipo di catastrofe o per "via naturale", è un errore madornale e un esempio di disumanità: la vita di ogni essere umano rimane come qualcosa che deve essere difeso strenuamente. Piuttosto, ancora una volta il disastro ecologico a cui stiamo andando incontro mostra le contraddizioni fondamentali della nostra società, la sua fondamentale insostenibilità, e ci costringe a ripensare a fondo tutto il sistema per spingerlo in una strada che vada molto oltre la svolta green auspicata (almeno a parole) dai governi di tutto il mondo.
Dobbiamo dire anche che tali governi non sembrano, nella maggior parte dei casi, interessati a una vera svolta che potrebbe mettere in crisi i modelli di produzione e di sviluppo, ed i risultati di ciò sono evidenti: le stime scientifiche sono ormai concordi nel decretare il fallimento degli Accordi di Parigi, con cui gli stati si impegnavano a contenere il surriscaldamento del pianeta al di sotto del 1,5° gradi, e la recente Cop27 ha visto (tra le altre cose) la partecipazione di 636 lobbisti legati a compagnie che lavorano nel campo dei combustibili fossili e al contempo l'arresto di attivisti e manifestanti ambientalisti (circa 3.000) secondo le modalità repressive che il paese ospitante, l'Egitto, è ormai solito impiegare, come sappiamo bene noi italiani in seguito ai casi Regeni e Zaky.
Ed il problema è proprio qui, perché se è vero che l'azione individuale è importante ed efficace, e che ognuno può fare qualcosa nel suo piccolo, occorre anche considerare che tale azione ha un risultato infinitesimale se comparata all'inquinamento e allo sfruttamento sistemico della terra e delle persone, che colpisce soprattutto i paesi più poveri del pianeta (vero e proprio traino della crescita mondiale della popolazione, in opposizione a un primo mondo sempre più vecchio e spopolato), danneggiando loro in primis e tutto il pianeta di conseguenza.
Come detto altre volte, la situazione mondiale costringe ad adottare soluzioni radicali che non riguardano solo la responsabilità individuale, ma devono essere portate come rivendicazioni davanti ai governi, alle organizzazioni internazionali e alle multinazionali responsabili per la maggior parte dell'inquinamento della terra. Siamo costretti a farlo in difesa della vita vegetale, animale e umana, e nella consapevolezza che ogni vita è sacra. La prospettiva non è rosea, ma si tratta della responsabilità fondamentale del nostro tempo: dello scontro decisivo contro la devastazione.
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