A sentirlo definire direttamente da un millennial appena usciti dal cinema è chiaro come il sole che si tratti di un «super-Miyazaki». E chi del maestro giapponese conosce opere e poetica non può che essere d’accordo: siamo di fronte all’ennesimo - un po’ sorprendente per l’infilata senza fine - capolavoro che non tradisce di una briciola il pensiero autoriale rendendolo al tempo stesso sempre più vivifico e parla all’essenza di ogni età, alla nostra intera condizione umana. Come nei dipinti di Magritte, dove cavalletti da pittore stanno davanti alle finestre da cui guardiamo fuori facendo di ciò che vediamo un dipinto, un artificio artistico che si scontra con il vero fino al cortocircuito (ceci n’est pas une pipe…), anche Hayao Miyazaki si pone sullo stesso piano del visuale e ci propone un mondo fatto di interpretazioni nel quale l’artista non può che dare la sua versione.
Ci si interroga parecchio, dopo il film, sul senso profondo di ciò che abbiamo visto, sulla linearità del racconto, sul significato di certe figure o situazioni metaforiche che forse non abbiamo nemmeno ben afferrato ma quel che resta, perfetto, è un senso di meraviglia generale, quella imponderabilità delle storie fantastiche che (ci) raccontiamo da sempre, come un mantra ancestrale.
È forse persino inutile mettersi a snocciolare i riferimenti culturali che sono disseminati praticamente in ogni fotogramma, dall’arcadia al classicismo greco-latino, dalle fisionomie tirate fuori a forza dai bestiari medievali o dalle iconografie rinascimentali; quel che conta in Miyazaki è come si sia sempre adoperato a fare da ponte tra il suo Giappone e la cultura occidentale (da “Porco Rosso” alla montagna incantata di “Si alza il vento” fino alla seconda guerra vista da entrambi i fronti o alla città svedese di Visby a cui si è ispirato per ambientare “Kiki consegne a domicilio”) e di come questa contaminazione sia sembrata la più naturale possibile, un universo che tutti noi abbiamo riconosciuto come autentico, streghe folletti o altre strane creature che lo abitassero, l’universo della nostra immaginazione.
Piuttosto concentriamoci un momento su aspetti che non notiamo mai in un film di animazione: la luce livida con cui il regista fotografa le sue scene e i marcati chiaroscuri della prima parte che si trasformano poi in intense luci plein-air e in forti colori che ne tessono invece la seconda metà, la fotografia è in questo film un traguardo spostato più avanti di sempre. Basta infatti andarsi a riguardare qualche scena di “Ponyo sulla scogliera” (che è solo del 2008) per rendersi conto di come Miyazaki abbia saputo arieggiare ancora il suo disegno e la resa appunto fotografica che rende tridimensionalità e corpo alle immagini senza bisogno di alcun ammennicolo tecnologico, senza lenti davanti ai nostri occhi. Perché la lente è la visione dell’autore, le lenti siamo noi che possiamo portare i nostri vissuti dentro un’opera e vederli fluttuare con leggerezza insieme ai protagonisti della storia narrata.
Allora potremmo metterci a cercare un senso oggettivo (!) nella storia del ragazzo e dell’airone? Oppure additare e interpretare le parti vagamente autobiografiche che Miyazaki usa come basi per alcuni dei suoi migliori film? O ancora cercare di capire davvero (!!) cosa è detto nel romanzo del 1937 di Genzaburō Yoshino “E voi come vivrete?” a cui quest’ultimo film si ispira tanto da esserne il titolo originale (e il libro è presente nella storia del film dato che Mahito lo trova tra gli oggetti che sua madre, morta nell’incendio dell’ospedale in cui lavorava, gli lascia per l’età adulta)?
A mio avviso non è questo ciò che Miyazaki chiede ai suoi spettatori. Riscrive la storia del romanzo, la reinterpreta a suo modo, ne rende meno didascalici i passaggi educativi (tra molte virgolette…) e ne fa appunto un racconto di formazione libero e fluttuante, capace di accogliere qualsiasi anima voglia confrontarsi con la necessità di nascere e rinascere, di crescere e cambiare se stessi ogni giorno, non soltanto nel superare la gioventù per passare all’età adulta. Il racconto di Miyazaki, a differenza del romanzo, non si ferma nemmeno un minuto sull’intento pedagogico ma imbastisce una vicenda di sentimenti, emozioni, vissuti personali che sono, così come si dice nel film, passaggi sul confine di mondi diversi.
Ecco quindi un «super-Miyazaki», mai definizione fu più semplice ed azzeccata eppure, anche a volerlo spiegare con la cassetta degli attrezzi della critica, non sappiamo affatto perché esso sia così autenticamente super. Lasciamoci trasportare dall’equilibrio perfetto di una poesia che non ha bisogno, almeno stavolta, di nessuna esegesi per arrivare dove deve. Al cuore, Hayao, al cuore.
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