Claudio Magris, autore di romanzi come Un altro mare e Alla cieca, raffinato germanista nel Mito absburgico e nell’Anello di Clarisse, è stato anche Senatore della Repubblica nei difficili anni (tra il 1994 e il 1996) segnati dall’avvento del berlusconismo. E gli ultimi libri pubblicati, a partire da quel «minimo manuale di resistenza» che è Livelli di guardia (Garzanti, 2011), esplorano proprio questo “lato civile” della sua scrittura.
Claudio Magris © Dontworry
Nel volume a quattro mani Letteratura e ideologia (Bompiani, 2012), scritto in un ideale dialogo a distanza con il Premio Nobel Gao Xingjian, Magris riflette sulla natura “politica” della scrittura letteraria (che «entra nella vita, nei pensieri, nei sentimenti della polis», LI, p. 45), da non confondere con alcun rigido disciplinamento ideologico:
Non credo che la letteratura del Novecento sia stata così succube dell’ideologia, come scrive Gao Xingjian. La più grande letteratura del Novecento è stata scritta da ribelli alle regole, da innovatori che hanno frantumato le forme e le strutture della narrativa e della poesia, che si sono confrontati col naufragio di tutta un’epoca e col nulla della vita senza alcun rassicurante parapetto ideologico (LI, pp. 46-47).
Simili ragioni guidano anche il più lungo e sfaccettato colloquio con un altro Premio Nobel, Mario Vargas Llosa, svoltosi a Lima nel 2009, e pubblicato da Mondadori, sempre nel 2012, con il titolo La letteratura è la mia vendetta. Il confronto della letteratura con la realtà, con i suoi orrori e le sue ingiustizie, sfocia per il narratore in una questione di carattere primariamente stilistico:
Quando ricostruiamo e narriamo storicamente i fatti, la tentata e comunque necessaria ricostruzione della verità, deve obbedire a un ordine, a una razionalità anche linguistica. Quando cerchiamo di raccontare, di immaginare come gli uomini abbiano vissuto la dittatura di Trujillo o il terrore staliniano, lo spaventoso disordine e la spaventosa irrazionalità di quelle vicende devono tradursi, per poter essere davvero capite e comunicate, nel disordine e nell’irrazionalità dello stile e del linguaggio, perché solo in questo modo si può far toccare con mano come gli uomini abbiano vissuto quelle vicende terribili. […] In tutti gli eventi c’è una profonda verità e dunque anche un profondo ordine, che però, per essere colto, deve passare attraverso il delirio (LMV, 16-17).
Magris rievoca il lavoro di stesura del romanzo Alla cieca, nel quale «il “cosa” deve essere analogo o identico al “come”» (LMV, p. 18); si sofferma sul ruolo della letteratura, che (citando Vargas Llosa) deve raccontarci la «enfermedad incurable» del mondo attuale (LMV, p. 20), offrendoci infine una ragione di salvezza, anche nella sconfitta, grazie alla sua capacità di farci «sentire, toccare con mano, questa necessità avventurosa di creare ogni volta un mondo nuovo» (LMV, p. 12). In un rovesciamento dello stereotipo romantico dell’artista “ispirato”, Magris assimila infine la scrittura creativa all’impegno etico del freddo legislatore, che, andando spesso contro i propri stessi interessi, sceglie in primo luogo di occuparsi del “bene comune”: «La democrazia, in questo senso, è poetica, è affine all’arte perché capace di mettersi nella pelle degli altri, di sconosciuti cittadini, come nella pelle di Anna Karenina» (LMV, pp. 57-58).
E se nello schiamazzo sempre più confuso di questa campagna elettorale, qualcuno dei nostri candidati fosse riuscito a testimoniare anche solo un barlume di questa sensibilità, forse l’esercizio del voto non ci riuscirebbe una pratica così penosamente “prosastica”.
Per DEApress, Simone Rebora
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