Il millesimo giorno di assemblea permanente non poteva avere una celebrazione migliore di quella che si è svolta al Teatrodante Carlo Monni di Campi Bisenzio con la messa in scena di Il Capitale. Un libro che non abbiamo ancora letto, spettacolo premio Ubu 2023 (ricordiamocelo, questo, per sottolineare la valenza civile del teatro) portato in scena dalla compagnia Kepler 452 che non sono soltanto Nicola Borghesi, in scena, e Enrico Baraldi, alla regia (e Paola Aiello e Roberta Gabriele), ma sono anche e soprattutto voce anima corpi intellligenza di Tiziana De Biasio, Francesco Iorio, Dario Salvetti e Alessandro Tapinassi ovvero un pezzo di collettivo GKN, la vera ossatura della storia, il suo cuore pulsante.
Perché lo diciamo da sempre che vogliamo il pane ma vogliamo anche le rose e venirsele a prendere su un palcoscenico, in decine di recital in giro per l’Italia, nella testimonianza continua e senza sosta di chi ha deciso che di qui non dovevano sfondare è atto grande di coraggio.
Perché, se sfondano qua, sfondano dappertutto. E sfondano anche da “voi”: infatti il leit-motiv, ribadito in tanti modi in questi tre anni, in tante declinazioni per fare in modo che chi voleva capire, capisse, non è «come stiamo noi, licenziati con una mail, che allora come vuoi che stiamo»; no, la questione reale è: «e voi? Come state, voi?».
Nel gioco dei pronomi noi e voi, che magari si rincorrono e si rischia una qualche confusione, ognuno si ponga dove vuole: tra i licenziati che invece occupano la fabbrica e resistono, anzi insorgono oppure tra quelli apparentemente tranquilli che lavorano a cottimo («noi metalmeccanici non lavoriamo più a cottimo da sessant’anni!» grida ad un certo punto della pièce Dario Salvetti), che hanno contratti a termine, a somministrazione, precari per sostanza materiale delle cose. Ognuno si senta tranquillo dove può, ché il Capitale dorme sonni sereni fino a quando qualcuno non si mette di traverso, non gli occupa la fabbrica, non gli blocca le merci e le macchine. Di qui non uscirà uno spillo.
E invece di uscire, pare che in molti abbiano voglia di entrarci in quella fabbrica, in ogni modo. Dalla visita della proprietà con bodyguard e investigatori privati al seguito (sic!) fino all’effrazione della notte di pasquetta che mette a segno un colpo miratissimo, preciso tanto da far supporre pensieri inquietanti: il sabotaggio della cabina elettrica centrale, quella che spegne la fabbrica, proprio qualche giorno prima dell’inizio del Festival di Letteratura Working Class.
La bimba non dorme più, direbbero i nostri, adesso è spenta ma il festival comincia lo stesso, proprio oggi, anzi adesso, mentre scrivo perché oggi è stata giornata feriale e ognuno di noi lavora, nei tanti modi in cui il Capitale ci compra il tempo, la vita - perché per alcuni di noi scrivere è solo passione e partecipazione, non reddito. Quindi sappiamo quello che sta succedendo - perché il programma odierno ci parla dell’incontro di apertura e presentazione, del panel sulla Danimarca working class nel pomeriggio, delle voci delle donne e della lotta del OGR di Bologna in serata - ma non sappiamo il come.
Il come lo vedremo da domani, di persona, coi nostri occhi e con gli occhi dei compagni di GKN che ci hanno aiutato a vedere il mondo in maniera migliore, a metterlo a fuoco come mai avevamo fatto prima, noi che in una fabbrica c’eravamo entrati solo come figli, a guardare le macchine ferme di un mobilificio in un sabato mattina di alcuni decenni fa. Noi che, come il direttore del festival, il mai troppo ringraziato per il lavoro quotidiano che compie Alberto Prunetti, di quei padri siamo figli e amianto o polvere di legno ci hanno modellato il sentimento dello stare al mondo. Buon festival, compagn*.
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