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Giornaliste uccise per la libertà d'informazione

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Lavoro di ricerca del Centro Studi D.E.A.

“Croniste, donne contro, attiviste dell’informazione che hanno messo in gioco la loro vita per la passione verso il giornalismo d’inchiesta che denuncia “guerre di guerre”, ribellioni, atti contro la morale e contro la libertà d’espressione, ciò che spesso viene “celato”. Vogliamo farvi conoscere alcune donne che hanno lottato in nome dell’autonomia di pensiero e della resistenza alla corruzione”. Silvana Grippi

L’iniziativa nacque come progetto per la “Giornata della donna 2013”, in collaborazione con studenti e studentesse partecipanti ad uno stage presso il Centro socioculturale DEA e l’Associazione Unocultura.

Questa pubblicazione ebbe lo scopo di rendere note storie e volti di alcune giornaliste che lavorarono per la libera informazione, sacrificarono la loro vita per informare e comunicare situazioni di criminalità e/o guerre. La lettura dei testi è stata resa in forma diretta, pertanto gli attori e le attrici hanno parlato in prima persona rivolti al pubblico come durante lo svolgimento di una inchiesta. L’identità ritrovata è stata utilizzata per lo spettacolo teatrale presso l’Università degli Studi di Firenze nella Facoltà di Lettere.

Il laboratorio di teatro-inchiesta è servito per approfondire la ricerca, la linguistica, con modalità di scrittura e lettura guidate da una professionista. La scelta del racconto diretto invece è stata fatta da Silvana Grippi, nostra tutor. Non fu facile raccontare la vita di oltre venti donne, protagoniste di un giornalismo critico e autonomo, che contribuirono con la loro testimonianza alla tutela del diritto di cronaca rafforzando un’etica morale di altro valore sociale .

Ognuna di queste donne si occupava di temi scottanti, per giornali che diffondevano tra l’opinione pubblica informazioni su narco-traffico e zone di guerre. Sono diventate testimoni dirette e poi vittime di aggressioni, violenze e uccisioni brutali ed hanno pagato in nome del diritto alla libera informazione.
L’ultima donna si differenzia dalle altre ma l’abbiamo scelta perché anche lei vittima della nostra società.

La scelta e la stesura di questi articoli - in ordine cronologico - è frutto di studi, ricerche e lavori di gruppo che hanno portato alla luce e approfondito il pensiero di ognuna di loro riguardo la libertà di stampa. A tal proposito ricordiamo la frase di una di loro, Marie Colvin: “La nostra missione è raccontare gli orrori della guerra con accuratezza e senza pregiudizi… abbiamo il dovere di darne testimonianza.”

Il lavoro è stato ideato e reso teatralmente dai tirocinanti DEApress dell’Università di Firenze.

Il progetto DEApress è stato coordinato da Silvana Grippi e Simone Rebora.

La stesura e l’elaborazione sono state curate da: Faly Coulibaly, Simona Mariucci, David Mattacchioni, Claudia Matruglio, Sofia Schiavone.

Grafica di Alessandro Altero e impaginazione Lara Fontanelli.

SOMMARIO

Graziella De Palo

Anna Politkovskaja

Anastasija Baburova

María Marcela Yarce Viveros e Rocío González Trápaga

Marie Colvin

Maria Grazia Cutuli

Regina Martinez

Ilaria Alpi

Maria Elizabeth Macias Castro

Mika Yamamoto

Veronica Guerin

Zakia Zaki

 

Graziella De Palo – giornalista italiana

BEIRUT- 2 Settembre 1980 : si perdono le tracce di due giornalisti: Italo Toni e Graziella De Palo.

Graziella De Palo, attenta osservatrice della realtà del mondo contemporaneo, nata a Roma nel 1956 ed inscritta alla Facoltà di Lettere dell’ Università di Roma e Italo Toni - giornalista professionista e profondo conoscitore dei problemi del Medio Oriente - spariscono nel “nulla” e ancora oggi non sappiamo niente.

Graziella, appassionata di giornalismo, lavora all’agenzia di stampa “Notizie radicali” e collabora al settimanale “ABC”, Quotidiano donna”, “I Consigli”, “Quotidiano dei Consigli”, “L’Astrolabio” e “Paese Sera”, dove pubblica i suoi pezzi più importanti di politica internazionale. A 24 anni è già famosa per le inchieste sul traffico d’armi. Il 22 Agosto 1980 i due giornalisti partono da Roma alla volta di Damasco per un reportage sui campi palestinesi in Siria e in Libano. Durante le varie visite la De Palo realizza interviste sulla situazione politico, sociale e militare dei palestinesi. Ma i due giornalisti vorrebbero avere un’occasione in più per conoscere nel profondo la condizione dei profughi palestinesi, e chiedono di poter visitare le postazioni palestinesi militari nel Sud, le zone più calde della guerra. Dopo 10 giorni nella capitale libanese decidono di recarsi con una jeep del Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina presso il castello di Beaufort. Dal 1976 in poi il castello era nelle mani dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), attaccato decine di volte dalle forze israeliane. Prima della partenza, consapevoli del pericolo a cui andavano incontro, comunicano all’ambasciata italiana le loro intenzioni, con la raccomandazione di assicurarsi nei tre giorni successivi del loro ritorno a Beirut. Ritorno mai avvenuto.

La versione più accreditata sostiene che una jeep differente da quella del Fronte Democratico abbia teso un’imboscata ai due giornalisti. Nessuno sembra essersi preoccupato di avvisare tempestivamente le autorità competenti della loro scomparsa e il 15 settembre, data del ritorno programmato in Italia, i familiari della De Palo iniziano a cercare invano di avere sue notizie. La scomparsa è legata ad ambiguità e contraddizioni legate alle carenti e poco chiare comunicazioni sulla vicenda dei due giornalisti da parte delle istituzioni. Sono stati uccisi in circostanze misteriose in un Paese straniero, “colpevoli” di indagare sul traffico d’armi tra Italia e Libano e sugli intrighi internazionali che vedono tra i protagonisti i servizi segreti italiani. Le indagini sono state frenate dal Segreto di Stato, anche se dal dicembre 2009, la Presidenza del Consiglio ha deciso di rendere consultabili parte dei documenti che compongono il Dossier dei servizi segreti militari. I familiari di Graziella sostengono che la sua sparizione sia legata all’intreccio di interessi tra Italia e Terrorismo arabo – palestinese e all’ accordo ultra segreto voluto dall’allora ministro degli Esteri Aldo Moro per riparare l’Italia dai danni collaterali causati dal conflitto tra palestinesi e israeliani. Una pista parallela conduce ai servizi segreti italiani quali possibili mandanti del loro omicidio.

Nel 2012 è stato pubblicato il libro “Omicidio di Stato”, scritto da Nicola De Palo, per colmare il vuoto dell’omertà istituzionale e delle false notizie con la speranza che l’opinione pubblica dedichi maggiore attenzione alla loro misteriosa scomparsa.

Anna Politkovskaja – Giornalista russa.

“Il giornalista deve produrre reportage, servizi, interviste. E le lacrime che versa nell’una o nell’altra occasione non interessano, in fondo, nessuno. Descrivi quello che vedi, metti insieme dei fatti e analizzali..”.

Il 7 Ottobre 2006, a Mosca, moriva Anna Politkovskaja, vittima di un assassinio. Definire chi fosse e cosa facesse non è semplice. All’apparenza Anna era una giornalista pluripremiata e rispettata in tutto il mondo per le sue numerose inchieste volte a far luce sulla questione cecena, ma in realtà era molto più di questo.

“Sono andata oltre il mio ruolo di giornalista. L’ho messo da parte e ho imparato cose di cui non sarei mai venuta a conoscenza se fossi rimasta una semplice giornalista, che sta ferma nella folla come tutti gli altri”, scriveva. Anna certamente non rimase ferma, ma partecipò attivamente a quello che vedeva eraccontava: prendeva parte ai colloqui con i terroristi, portava cibo e assistenza ai civili e agli ostaggi di guerra, intervistava i soldati e le autorità. Il suo essere sempre in prima linea le causava non pochi problemi. Costantemente vittima di diffamazioni, minacce e attentati veri e propri, fu costretta più di una volta a scappare dalla Russia e a rifugiarsi all’estero per qualche tempo, ma la sua temerarietà e il suo rigore interiore superavano di gran lunga la paura della morte, e la spingevano a tornare, sempre. I colleghi sostengono che quella della Cecenia, oltre ad esser stata per Anna un’importante missione, era diventata una vera e propria ossessione. Ma il decidere di affrontare dozzine di trasferte – anche a proprie spese- per la realizzazione di articoli che quasi sicuramente le avrebbero portato denunce e querele, invece che restare a casa a godersi la fama giustamente meritata, è quello che ha fatto sì che Anna diventasse una delle giornaliste e scrittrici più apprezzate e celebri del mondo. Il suo assassinio ha messo a tacere l’ennesima voce della verità.

Tutt’ora non è stato individuato un colpevole, e le versioni a riguardo sono molteplici. Probabilmente quello di Anna resterà uno dei tanti casi irrisolti, uno dei tanti casi che testimoniano il continuo deterioramento dei diritti civili e politici.

Anastasija Baburova – Giornalista ucraina.

Che la Russia non sia tra i paesi più democratici e tolleranti del mondo, è ormai ampiamente risaputo e testimoniato dalle lunghe liste di giornalisti ed attivisti uccisi, vittime di un "regime" in cui la libertà di stampa sembra essere sempre più una mera utopia. In queste agghiaccianti liste di nomi compare anche quello di Anastasija Baburova, 25 anni, stagista nel giornale russo Novaja Gazeta, lo stesso in cui lavorava un’altra grande personalità del giornalismo russo d'inchiesta: Anna Politkovskaja.

Anastasija era infatti considerata l'erede di Anna: stesso giornale, stessa temerarietà, stesso interesse per la difesa dei diritti umani in Cecenia, e alla fine, paradossalmente, stessa tragica sorte. Anastasija Baburova era attiva nel movimento anarchico ambientalista, e partecipava alle attività di movimenti ecologisti e antifascisti. Aveva dimostrato una straordinaria coerenza con i suoi valori ed ideali rassegnando le dimissioni dal giornale Financial News per il quale lavorava, reputandolo eccessivamente "cinico e nazionalista", e dagli articoli di finanza era passata a quelli d'inchiesta e ai reportage sul crescente razzismo e ultranazionalismo in Russia. Annotava nel suo diario: "Come si fa a guardare negli occhi uno studente coreano che è statoappena colpito alla tempia da due teppistelli prima di salire sul tram? Gli sono saltati addosso, hanno fatto il saluto nazista e sono corsi verso il tram".

Anastasija venne uccisa il 19 Gennaio 2009 a Mosca, mentre camminava per le strade della città insieme all'avvocato Stanislav Markelov, difensore dei diritti civili.

In un primo momento le indagini sostennero che fosse rimasta vittima di un attentato il cui vero obiettivo era Markelov, ma in seguito le autorità russe dichiararono che anche Anastasija era una vittima designata.

Per quest'omicidio, che scandalizzò l'opinione pubblica russa, vennero condannati due membri di un gruppo neonazista, che affermarono di aver agito per odio e vendetta.

María Marcela Yarce Viveros e Rocío González Trápaga – Giornaliste messicane

Il 31 Agosto 2011 Città del Messico è stata testimone di un doppio omicidio: quello delle due croniste Ana María Marcela Yarce Viveros e Rocío González Trápaga. La Yarce è stata fondatrice del settimanale "Contralinea", dedito alle inchieste legate alla corruzione; la Trapaga è stata reporter per l’emittente "Televisa". Tra la notte del 31 Agosto e il 1 Settembre le due giornaliste sono state uccise brutalmente, entrambe morte per asfissia. I corpi sono stati ritrovati nel parco di Iztapalapa, quartiere di Città del Messico, completamente nudi con mani e piedi legati ed evidenti segni di violenza su tutto il corpo. Gli amici sostengono che le donne fossero amiche da molto tempo e che prima di sparire si fossero date appuntamento per un caffè. Le autorità, dati i tanti casi di femminicidio nel paese, hanno sostenuto il legame tra l'aggressione e ragioni di genere ma le associazioni dei giornalisti si oppongono con forza a questa versione dei fatti e ritengono che il massacro delle donne sia stato un attacco diretto alla libertà di stampa. Nel Settembre 2012 una sentenza ha giudicato colpevole Lázaro Hernández Ángeles con una pena a 109 anni per aver assassinato le due croniste, mentre l'altro imputato Quinones Emmert è tutt'oggi sotto processo. Angeles ha dichiarato di esser stato invitato da Quinones Emmert a partecipare ad un affare in cui avrebbe potuto guadagnare un ingente somma di denaro. La giornalista Yarce Viveros, socia di un Ufficio cambi dell'Aeroporto Internazionale Benito Juárez, conobbe Emmert che le propose di cambiare un milione di pesos in dollari ad un prezzo maggiore di quello di mercato in cambio di una ricompensa.

Il giorno dell’omicidio Angeles vide Emmert che arrivò all'incontro al parco insieme alle due croniste.

Le donne furono misteriosamente uccise durante la notte. La vicenda potrebbe essere stato un segnale della forte presenza dei narcotrafficanti in Messico, paese nelle mani della criminalità, definito addirittura “narcostato”: il Messico è considerato il paese più pericoloso al mondo per i giornalisti secondo la Commissione nazionale per i diritti umani del Messico (Comisión Nacional de los Derechos Humanos) e 'Reporter Senza Frontiere'. I blog anonimi, a causa della neutralizzazione dei media tradizionali, sono gli unici organi che informano circa le vicende legate alla guerra della droga. Tra il 2010 e il 2012, nel paese, sono stati assassinati 82 giornalisti e ancora non hanno avuto giustizia; organismi nazionali e internazionali di difesa dei diritti umani hanno condannato le aggressioni contro i giornalisti in Messico e la mancanza di sentenze contro chi commette gli attacchi. Ci si augura che tanto sacrificio serva da stimolo per una maggiore tutela della libera informazione.

Marie Colvin - Giornalista americana

Quello di Marie Colvin, veterana del giornalismo internazionale, è l'ennesimo nome che compone la lunga lista delle inviate di guerra che hanno perso la vita. L'abbiamo conosciuta grazie ai suoi innumerevoli reportages di guerra dalla Cecenia, dall'Iraq, dal Kosovo, dallo Zimbabwe, dalla Palestina e dalla Libia.

Marie era considerata una delle più coraggiose corrispondenti estere della sua generazione, una giornalista il cui ardore nella ricerca della verità prevaleva sulla paura della morte. Non a caso, quello che i colleghi ricordano di lei è, in particolar modo, il suo essere sempre in prima linea, sempre disposta ad addentrarsi nei luoghi più pericolosi e impossibili, la prima ad arrivare e l'ultima ad andarsene.

Marie era fermamente convinta che per poter raccontare con accuratezza e senza pregiudizi le condizioni dei civili nelle zone di guerra, bisognasse necessariamente viverle in prima persona: mangiare quello che loro mangiavano, dormire dove loro dormivano, bere quello che loro bevevano. Ma quello che probabilmente la avvicinava di più a tutte quelle anime profondamente segnate dagli orrori della guerra, era la consapevolezza che un altro giorno vissuto era un altro giorno che la morte le aveva risparmiato. La benda nera in "stile pirata" che portava dal 2001, quando in Sri Lanka una granata le aveva portato via un occhio, la rendeva immediatamente riconoscibile. "Me ne basta uno per raccontare il delirio del mondo", diceva.

Proprio come un "delirio" Marie descriveva il terribile conflitto in Siria, che considerava il peggiore a cui avesse mai assistito, e che sarebbe stato l'ultimo che avrebbe vissuto. Marie venne uccisa insieme a Remi Ochlik, fotoreporter francese, il 22 Febbraio 2012 durante un assedio ad Homs.

Veronica Guerin – Giornalista irlandese

Veronica Guerin era una famosa giornalista irlandese, divenuta celebre per le sue inchieste contro il traffico di droga che imperversava in Irlanda fin nella metà degli anni novanta. Aveva iniziato la sua carriera giornalistica occupandosi principalmente di pettegolezzi e gossip, ma aveva sentito il bisogno di dedicarsi a qualcosa di più nobile e importante nel momento in cui diverse associazioni dei genitori avevano chiesto il suo aiuto per far fronte all’enorme problema della droga di cui le nuove generazioni irlandesi erano divenute vittime. Recandosi nei quartieri periferici della città e confrontandosi con giovani tossicodipendenti, aveva probabilmente scoperto un’altra faccia di Dublino, la faccia più cupa e sinistra, ignorata dalla maggior parte delle persone. Da quel momento in poi la missione di Veronica è stata la lotta al crimine organizzato, missione che l’ha portata ad addentrarsi in situazioni pericolose, che le ha causato minacce ed intimidazioni, e che alla fine le è costata la vita. La determinazione e la tenacia che la caratterizzavano, infatti, la portavano a mettere in secondo piano la sua sicurezza personale, pur di poter seguire le storie direttamente dalla fonte e poter parlare in prima persona con i protagonisti delle sue inchieste.

Veronica entrò in contatto diretto sia con le autorità legali che con le organizzazioni criminali, e chiese al governo irlandese l’attuazione di diversi procedimenti per impedire, o quanto meno rendere più difficoltose, le azioni dei narcotrafficanti. Tramite un duro lavoro di ricerca, Veronica riuscì a risalire all’identità di alcune delle personalità più potenti e riconosciute nel mondo del narcotraffico irlandese, come quelle di John Traynor, Gerry Hutch e John Gilligan. Dopo aver scritto di loro, quelle che fino ad allora erano state solo minacce verbali o scritte si trasformarono in qualcosa di più: Veronica venne gambizzata e brutalmente picchiata, ma nonostante questo non si arrese e sporse denuncia. In un’intervista televisiva dichiarò:“Sarebbe peggio per me, o per qualsiasi altro giornalista, se ci lasciassimo intimidire. Perché questo vorrebbe dire che hanno vinto loro.”

Nonostante fosse scortata dalla polizia sia di giorno che di notte, Veronica venne assassinata il 26 Giugno 1996 da un uomo in motocicletta, mentre era ferma ad un semaforo.

Ma l’inevitabile tristezza per la messa a tacere dell’ennesima voce della verità, è in parte compensata dalla consapevolezza che lo sforzo e l’impegno di Veronica non sono stati vani: la sua morte ha infatti smosso il Parlamento irlandese, che a meno di una settimana dalla sua uccisione ha modificato la Costituzione della Repubblica Irlandese e consentito all’Alta Corte di congelare i beni di sospetti narcotrafficanti.


Maria Grazia Cutuli – Giornalista italiana

A quasi dodici anni dalla scomparsa di Maria Grazia Cutuli, intendiamo ricordarne l'impegno e la dedizione che le è costata la vita nell'attentato del 19 novembre 2001 in Afganistan.

Maria Grazia Cutuli nasce a Catania il 26 ottobre 1962, si laurea in Filosofia ed inizia la carriera nella sua Catania scrivendo di teatro per la testata "La Sicilia", giungendo poi a lavorare come conduttrice del Telegiornale dell'emittente locale "Telecolor". Nel 1987 a Milano inizia la sua collborazione con la Mondadori, per il Periodico Centocose e per il settimanale Epoca, dove si occupa di reportage su Bosnia, Congo, Sierra Leone e Cambogia; alla chiusura della testata Maria Grazia Cutuli si specializza presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa frequentando un corso di peacekeeping. Trascorre un periodo di volontariato in Ruanda con l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani, nel 1997 torna a fare la giornalista per il Corriere della sera che le offre un contratto per i servizi Esteri.

La svolta significativa nella sua carriera avviene il 13 Settembre quando viene mandata come inviata in Afganistan, viaggio che le permette di visitare il Pakistan . Come inviata scopre l' esistenza di un magazzino, all'inizio imputato ad al-Qaida, nel quale erano depositate fiale di Sarin, potente gas nervino che agisce sulla pelle e rende inutile l'uso delle maschere antigas, sulle quali era applicata l'etichetta di un'azienda statunitense, particolare che probabilmente è causa dela sua morte. Due giorni dopo mentre si dirigeva da Jalalabad a Kabul accompagnata da Julio Fuentes del quotidiano El Mundo e da altri due colleghi, il convoglio dei giornalisti viene fermato e trivellato di colpi di AK47, il micidiale Kalashikov. Un caso? L'attacco avvenne lo stesso giorno della pubblicazione in Italia dell'articolo della Cutuli. Un caso che l'aviazione statunitense non abbia mai bombardato quel magazzino?

Nel 2005 in Afganistan si è concluso il processo sulla scomparsa della giornalista che ha portato alla condanna alla pena capitale di tre imputati, giudizio al cui verdetto la famiglia della giornalista si è sempre opposta . In suo ricordo sono stati scritti vari libri e un graphic novel, e sono stati istituiti due premi: il Premio giornalistico Città di Milano "alla memoria di Maria Grazia Cutuli" e il Premio internazionale di giornalismo «Maria Grazia Cutuli», da parte del suo paese d'origine, Santa Venerina. La storia di Maria Grazia Cutuli rientra a piano titolo fra gli annali di coloro che hanno dedicato la vita per amore della verità e del giornalismo, senza cadere nel sensazionalismo che affligge oggi l'informazione dei giornalisti da “scrivania”.

Regina Martinez – giornalista messicana

Messico: un’altra vita sacrificata, un altro attacco alla libera informazione, l’ennesimo. Regina Martinez, corrispondente di “Proceso”, il più datato e rispettato tra le riviste politiche del Messico, è stata trovata morta la notte del 28 Aprile 2012 nel bagno della sua casa a Xalapa, capitale dello stato di Veracruz a 300 km da Città Del Messico con contusioni su tutto il corpo, il viso tumefatto e segni di strangolamento. Secondo quanto riferito dal generale Amadeo Flores Espinoza, dall’appartamento della vittima sono stati derubati alcuni oggetti personali; nel Novembre 2012 il generale ha annunciato che uno tra gli indiziati ha confessato dichiarando che la causa dell’assassinio è stata il furto, successivamente però l’indagato ha affermato di esser stato torturato e minacciato per fare una falsa confessione.

La giornalista era tra le più apprezzate per il giornalismo d’inchiesta e si occupava di temi legati alla corruzione e al narcotraffico: l’ultimo articolo pubblicato prima della morte riguardava l’arresto di alcuni poliziotti legati al commercio di stupefacenti. Durante tutta la sua carriera ha regolarmente pubblicato articoli riguardo la corruzione e lo sviluppo della guerra del narcotraffico messicano nella quale molti giornalisti sono stati uccisi. In Messico i cronisti sono vittime dei cartelli che gestiscono questo business: il maggior numero di aggressioni è dovuto allo scontro per il controllo del traffico di droga tra i due più potenti cartelli, gli Zetas e il cartello del Golfo. Una decina di giornalisti sono stati costretti a cambiare casa, lavoro, Stato. Regina era protagonista di un giornalismo critico e autonomo, esempio per quasi 30 anni di autonomia di pensiero e resistenza alla corruzione. Mentre il Congresso di Veracruz stava rendendo omaggio alla giornalista con un minuto di silenzio, il 4 maggio 2012 nella Giornata mondiale per la libertà di stampa, sono stati ritrovati nel canale della Zamorana nel nord del porto di Veracruz quattro cadaveri torturati e chiusi dentro dei sacchi di plastica: un reporter, un cronista e due giornalisti. Strage di cronisti che cercano di fare il loro mestiere in un paese che non dà spazio al libero pensiero. Per resistere e contribuire a tutelare la “verità” i giornalisti si sono organizzati sotto la sigla “periodismoenlared”, un appoggio ai professionisti della comunicazione . ”Questa nuova ondata di omicidi di giornalisti dev’essere un campanello d’allarme per le autorità messicane, che devono fare di più per proteggere chi rischia la vita nello svolgimento della propria attività giornalistica”, afferma Rupert Knox, ricercatore di Amnesty International sul Messico. Rendere meno facile la vita della criminalità è l'onere di cui le autorità devono farsi carico.


Mika Yamamoto – Giornalista giapponese

Nei ricordi dei colleghi, Mika è presente in tutta la sua bellezza ed eleganza: “Agli occhi di chi non la conosceva, sembrava una bellissima impiegata o segretaria. Nessuno avrebbe mai detto che era un’inviata di guerra”, ricorda l'amica e collega Tamamoto. Proprio questo era invece il lavoro di Mika, o meglio la sua missione. Era stata in Kosovo, in Bosnia, in Cecenia, in Indonesia, in Afghanistan, in Iraq e in Uganda prima di andare in Siria. E la spinta propulsiva era sempre la stessa: testimoniare il dolore e le sofferenze a cui la popolazione civile era sottoposta, con particolar riguardo per donne e bambini. Ma la testimonianza per Mika non aveva valore solo in sé stessa: la cosa più importante era l'effetto formativo che doveva produrre nei lettori. Far conoscere al Giappone intero e soprattutto alle giovani generazioni gli scenari di guerra ancora presenti significava per lei portare all'acquisizione della consapevolezza che la pace in patria è effimera ed irreale se collegata alla realtà mondiale. Voleva testimoniare che la pace è purtroppo solo una fase, uno status che si acquisisce solo passando attraverso fasi storiche di guerra. Così, ricordava con forza ai giovani nati nella prosperità, il Giappone è diventato quello che è soltanto dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale. Per la sua attività Mika aveva ricevuto riconoscimenti e premi internazionali, tra cui il premio Vaughn-Ueeda, l’equivalente giapponese del Pulitzer americano, per il suo reportage sul bombardamento del “Palestine-Hotel” a Baghdad da parte di un carro armato americano. A chi rischia la vita per documentare la verità e svegliare le coscienze dei giovani probabilmente non interessano più di tanto i riconoscimenti formali. Il riconoscimento che Mika cercava, ci piace immaginare, era quello di una società che riuscisse a vedere fuori dei propri confini geografici e temporali, di un’umanità che riesca a sentirsi una, di un impegno individuale e comune per i diritti di tutti. Se qualche lettore avrà compreso e fatto suo il messaggio di Mika, allora il suo lavoro e il suo sacrificio non saranno stati vani.

Ilaria Alpi – Giornalista italiana

Le cause dell’omicidio di Ilaria Alpi, dopo un ventennio, restano ancora sconosciute. La commissione d’inchiesta parlamentare istituita nel 2004 per indagare sull’evento concluse i suoi lavori dopo due anni con un sostanziale “nulla di fatto”. Infatti, le conclusioni proposte dal Presidente Carlo Taormina sono state approvate dai deputati di maggioranza, ma rigettate dall’opposizione. La tesi che Taormina cercò di portare avanti era quella del tentativo di rapina sfociato in omicidio; in un’intervista all’”Unità” del 7 febbraio 2006 dichiara: «Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un’altra storia». Un incidente, dunque....? Conclusioni di questo tipo erano visibilmente insufficienti ed inconcludenti, tanto che il caso venne riaperto e continuò ad essere discusso. Una svolta essenziale arrivò il 14 febbraio 2010, quando per la prima volta un giudice italiano, Emanuele Cersosimo, chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero Franco Lonta, sentenzia che Ilaria e l’operatore Miran Hrovatin furono uccisi su commissione e che la loro morte non fu dovuta ad un incidente. Il movente che rintracciò fu la volontà di tenere nascoste le scoperte dei due sui traffici di armi e rifiuti. Nel 2011 le indagini sono ricominciate, ma ad oggi non sono stati ancora individuati i colpevoli. L’unico a scontare una pena è Hashi Omar Hassan, miliziano somalo condannato a 26 anni di reclusione per il duplice omicidio, in quanto riconosciuto come uno degli esecutori materiali.Portare avanti la memoria dei due giornalisti di fronte a questa mancanza di capacità – o di volontà- delle istituzioni significa innanzitutto non lasciar morire il loro lavoro. I colleghi di Ilaria continuano instancabilmente a cercare le verità che non vengono a galla, spinti anche dai numerosi premi a lei dedicati. E’ questo il caso di “Toxic Somalia” (Premio Speciale alla 18^ edizione del Premio Ilaria Alpi), reportage scritto e diretto da Paul Moreira nel 2012 sviluppando le tracce individuate da Ilaria e da Miran sul traffico di rifiuti tossici. Moreira è riuscito a intervistare i pirati somali che accusano l’Occidente di scaricare, nelle loro acque, rifiuti tossici e ha documentato l’innegabile aumento di infezioni e malattie nelle zone in cui i due indagavano, triplicate in soli venti anni.Lavori di questo tipo evidenziano quanto scottante e ancora attuale sia il lavoro svolto da Ilaria e di quanto sia importante trovare una soluzione all’enigma della loro morte per riuscire finalmente ad interpretare e sciogliere anche una delle pagine più oscure della nostra storia nazionale. Se l’interesse è ancora vivo il merito va sicuramente all’opinione pubblica. I genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana Alpi, insieme con l’ ”Associazione Ilaria Alpi” si sono adoperati strenuamente per tenere aperto il caso e continuano a farlo. Numerosi sono i premi e i riconoscimenti dedicati alla giovane inviata, come numerose rimangono le iniziative di scuole, istituzioni e privati cittadini. L’Associazione DEA e il Centro Studi Unocultura vuole unirsi alle voci di quanti continuano a chiedere risposte sule morte di Ilaria Alpi, sulla verità storica di quegli anni e sulla portata del coinvolgimento del governo italiano

Maria Elizabeth Macias Castro – Giornalista messicana

Maria Elizabeth Macias Castro, detta Marisol. Era una donna dalla fede molto forte: faceva parte del comitato centrale del Movimento Laico Scalambriniano, nato per affiancare i missionari nelle loro strutture organizzative e associative, con particolare riguardo all’assistenza dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dalla loro personale cultura, religione, lingua e situazione giuridica. L’impegno generoso di Marisol per la comunità non finiva qui, ma si estendeva al suo ruolo professionale: in qualità di caporedattrice del quotidiano Primera Hora e di giornalista web su Nueva Laredo en Vivo, era convinta che testimoniare la verità fosse un dovere nei confronti della comunità. Essere giornalisti in Messico non è facile. Secondo un’indagine dell’ONU, è la nazione più pericolosa per i reporter, quella in cui ne muoiono di più ogni anno. Spesso dunque, il giornalista tende a non raccontare determinati avvenimenti, o per lo meno a minimizzarli, per quanto possibile, in accordo naturalmente con i direttori delle testate. Come biasimarli? In uno stato come il Messico, bisogna stare attenti alla propria vita più che alla verità. Forse Marisol non faceva questo tipo di riflessione, forse era una persona troppo avventata, forse per lei la scala dei valori e delle priorità era diversa. Sta di fatto che su Nueva Laredo en Vivo denunciava proprio i responsabili degli omicidi dei suoi colleghi, i gruppi di narcotrafficanti così numerosi e così pericolosi nel suo Paese. Il corpo di Marisol è stato ritrovato lungo una strada di Nueva Laredo, nel settembre del 2011, dopo due giorni dalla scomparsa, orrendamente mutilato. La testa mozzata sopra il monumento a Cristoforo Colombo in una delle piazze più trafficate della città; il resto del corpo con anche la mano che usava per scrivere mozzata, a terra insieme ad un groviglio di cavi, tastiere e dischi, le sue armi del mestiere. Accanto, un biglietto. La firma è quella dei Los Zetas, il cartello della droga presente soprattutto nel nord e nel nord-est del Messico. Il testo è questo che segue: “OkNueva Laredo en Vivo e altri siti. Io sono Nena de Laredo [il nome che Marisol usava per firmare i suoi articoli web] e sono qui a causa dei miei reportage e dei vostri… Per quelli che non credono che quella che mi è successo sia collegato alle mie azioni, per credere nell’Esercito e nella Marina… Grazie per la vostra attenzione, la Nena de Laredo

La morte di Marisol doveva essere esemplare, dunque; il messaggio: denunciare uccide.

Dal 2000 al 2011 i giornalisti uccisi in Messico per le loro indagini nel campo dello spaccio di droga sono stati 80. Marisol lascia un figlio e il vuoto di una nuova sconfitta del governo e della società messicana contro il potere dei “Signori della droga”.

Fakhra Younas è diversa dalle altre, perché è stata uccisa due volte: prima nel fisico e poi nella psiche. La prima volta, suo marito le ha rovinato il viso con l'acido mettendo in pericolo la sua vita, mentre la seconda volta è stata uccisa da se stessa, poiché ha rifiutato di vivere in "sofferenza". La società l’ha istigata al suicidio
Fakhra abitava in Pakistan, ed era una famosa danzatrice. Fu sfregiata dal marito geloso e i danni cutanei la stavano portando alla morte. Venne portata in Italia d'urgenza per essere salvata e dovette subire 39 interventi per ricostruire la pelle e per recuperare le altre funzionalità del corpo; rimase cieca da un occhio, perse l’uso di un braccio e la masticazione fu compromessa.
Grazie alla solidarietà ricevuta riuscì a vivere e diventò scrittrice, per dare voce a tutte le donne del mondo "senza volto". Ma le sue sofferenze continuarono, e il 17 marzo del 2012 decise di uccidersi lanciandosi dal VI piano di una casa alla periferia di Roma.
Così si apre il libro "Il volto cancellato" che racconta la sua triste storia:"Faceva un caldo terribile quella mattina di maggio a Karachi. Improvvisamente sentii un caldo come non avevo mai provato. E non vedevo più, non riuscivo ad aprire gli occhi che mi si erano tremendamente gonfiati. Mi rendevo conto che era successo qualcosa di terribile, ma non sapevo che quello che aveva sciolto i miei vestiti e che ora mi stava mangiando il viso, il petto, le braccia era l’acido”.
Cosa aveva fatto scatenare la violenza di lui? Un giorno Fakhra decide di chiedere il divorzio e abortisce il figlio che portava in grembo, perché stanca di subire violenza. Una mattina, mentre dorme, suo marito, colui che diceva di amarla più di ogni altra cosa al mondo, senza un briciolo di umanità le versa addosso un bicchiere di acido .
“Mi si era avvicinato e mi aveva afferrato la testa: credevo che mi volesse far bere qualcosa, invece mi versò sulla faccia dell’acqua. Quella che credevo fosse acqua, perché all’ inizio non faceva male”.
La sua storia è simile a quella di migliaia di donne e spesso anche bambine che in Asia - Bangladesh, Pakistan, Nepal, Afganistan - e anche in alcune zone dell’Africa,patiscono la stessa violenza. Tutto ciò può avvenire anche per futili motivi: ad esempio se rifiutano di fidanzarsi o sposarsi con un pretendente, o magari perché la loro dote non è considerata sufficiente dalla famiglia del marito, per gelosia, perché vogliono studiare o semplicemente essere considerate degli esseri umani. Le vittime, per proteggersi, portano le mani al volto compromettendolo e spesso muoiono mentre vengono trasportate in ospedale, mentre, se sopravvivono, devono affrontare il dolore fisico e quello psicologico.

Giornaliste di cui è stato difficile reperire informazioni:

Cynthia Elbaum: Fotografa per Time magazine. E’ rimasta uccisa il 22 dicembre 1994 nel corso deibombardamenti russi a Grozny, in Cecenia.

Natalya Alyakina: Giornalista free-lance corrispondente per la Germania. E’stata uccisa il 17 Giugno 1995da un soldato vicino alla città russa di Budyonnovsk, dopo aver attraversato il check point che divideva in due la città.

Nina Yefimova: Reporter per il giornale “Revival” a Grozny, in Cecenia. E’ stata rapita nel suo appartamentoe uccisa insieme a sua madre il 9 Maggio 1996.

Johanne Sutton: Giornalista per Radio France International. E’ stata uccisa l’11 Novembre 2001 a Dasht-eQaleh, in Afghanistan, in un agguato delle truppe talebane.

Natalya Skryl: Reporter per il giornale Nashe Vremya a Rostov-on-Don, in Russia. Qui è stata uccisadurante un agguato il 9 Marzo 2002. Le cause e i colpevoli rimangono tuttora sconosciuti.

Sarwa Abdul-Wahab: Giornalista freelance per il sito Muraslon. E’ stata uccisa il 4 Maggio 2008 a Mosul, inIraq, durante un tentativo di rapimento.

Natalya Estemirova: Giornalista cecena. Collaborava con i quotidianiLa Voce,Il lavoratore di GroznyeNovaya Gazeta. E’ stata rapita il 15 luglio 2009 mentre si trovava nella sua abitazione a Grozny.

Elisabeth Blanche Olofio: E’ stata uccisa il 7 gennaio 2013 a Bambari, nella Repubblica Centrafricana,durante una raid di ribelli della coalizione Seleka nei locali della radio cattolica locale Bé-Oko, per la quale lavorava.

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Ultimo aggiornamento ( Giovedì 09 Febbraio 2017 10:07 )  

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