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Pavel Ahtoh Sudoplatov scrive di Sante

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Pavel Ahtoh Sudoplatov   
Via del Pratello, Mutenye.
 
 
Una quindicina di anni fa.
Un mio caro amico mi disse :<<ci sei mai stato in quel locale al Pratello? Il barista è Sante, quello della banda Cavallero!! Si, quello di Banditi a Milano!>>.
C'era scritto "Non si effettua servizio ai tavoli" anche se spesso in realtà non era così.
Io, nella sala di dietro del Mutenye mi ci perdevo come se fossi un pirata. E qualsiasi stagione fosse per me era sempre un inverno.
Per me era sempre una sera piovosa, di quella pioggia incessante, serale, di quegli inverni lontani, bui, quando le strade erano ancora malamente illuminate dai lampioncini un pò fiochi, un pò gialli che dondolavano al vento. Per me era come se fuori dal Mutenye ci fosse così tanta acqua da essere in mare aperto, come se fossimo tutti assieme una ciurma ubriaca di pirati, naufraghi e galeotti.
A Sante non l'ho forse mai detto,
ma io per anni l'ho osservato e ammirato in silenzio, fantasticando di potergli parlare, e sognando di potergli essere amico.
In realtà mi sarebbe andato bene anche essere solo un lontano conoscente.
E quando qualcuno veniva a trovarmi a Bologna io cercavo sempre di andare al Mutenye, sperando di incontrare Sante.
Per me ancora nel pieno dei miei vent'anni, all'epoca studente dams, Sante era uno che aveva fatto la storia come rapinatore comunista sulla cui banda avevano fatto un film, che all'epoca amavo.
Quando ero nel Mutenye cercavo di sedermi sempre al tavolino in fondo così da poter guardare il quadro di Cavallero e perdermi nel dondolio della mia fantasia.
Di tutta la mia ciurma di amici sono sempre stato quello più "di sinistra", quello più convinto, quello più consapevole.
Ero: il comunista, ma quando ero al Mutenye mi sentivo la carogna più incosciente e ignorante della storia.
Poi iniziai a prender coraggio e con la scusa di vedere la partita della Juventus allo schermo mi spostai dal defilato tavolo su retro al bancone dove i miei occhi si inchiodarono su una frase di Edith Piaf incorniciata in un quadretto: Je ne regrette rien.
Ormai il mio sogno era coronato, Sante mi salutava ormai, io lo salutavo. "come va? bene? bene".
Quei convenevoli erano per me balsamo serale, cura delle amarezze quotidiane, delle frustrazioni immense che la voglia di politica crea nelle persone più volenterose. Mi dicevo: ora posso morire felice.
E un giorno, complice anche la presenza di Carla, presi tutto il mio coraggio e prendendo spunto da un volantino sul 25 aprile al Pratello sul bancone del bar con in corpo un paio di Petrus dissi con boria una frase che mi sembrò intelligente ed acuta e pensando dentro di me: "è fatta sto per parlare di politica con Sante Notarnicola!!"
Precisamente dissi: <<Questo film in programma è un film che mi è parso un pò revisionista!>>
Sante mi guardò con i suoi occhi di ghiaccio mi sentì un imbecille, mi passò pure quell'accenno di sbronza e mi disse molto chiaramente:
<<Ragazzo, non ci siamo. Hai detto una grossa cazzata>>.
Sento il tonfo della mia anima ancora oggi, mi sentì sprofondare nel vuoto.
Mi sentì un coglione totale.
Sante continuò ad argomentare il suo punto di vista e mentre soffrivo dentro come un cane per la figuraccia una parte di me iniziava ad appuntarsi ogni virgola, ogni parola.
Da allora diventammo poi davvero amici.
Io presi ogni mia considerazione e la rividi alla luce dei fatti.
Finivo le assemblee fumose, le post-assemblee ancora più fumose e più piene di scazzi, mettevo da parte i libri di esame, e passavo le serate al Mutenye fino a tardi.
<<Ragazzo cosa bevi?>> e a Carla <<Piccola, e tu? Non bevi nulla?>>.
Sono stati anni di petrus, unicum e politica.
Petrus, unicum e politica.
E assieme parlavamo come se fossimo in una stanza fuori dal tempo, senza gerarchie, i racconti su Martino Zicchitella, su Prospero, sul carcere, sulla banda, su piazza Statuto, sulle celle di punizione, sulla brigata stella rossa, su Marzabotto, sul partigiano Lupo, su Dante Drusiani "Tempesta", su Sabbiuno, il carcere di San Giovanni in Monte, Lotta Continua, Andrea Valcarenghi, le brutalità del nazismo, sulla Fiat, la barriera di Torino, sul nostro sud, sulla Juventus, e i Corvi, Stalin, gli anarchici, Gianfranco Faina, e poi ancora la banda, nonna Mao, Irma Bandiera, le brigate nere, Bologna com'era, i compagni come erano, come sono, chi siamo, chi vogliamo essere, chi saremo.
E il tempo passava veloce eppure lento e costante, e io con una tesi tra le mani che decido di riscrivere tutto e parlare delle rivolte in carcere, dei dannati della terra dei quali nulla era stato scritto ancora e la cui storia era giusto tramandare come arma di lotta più che testimonianza ai giovani proletari, ai giovani comunisti e anarchici.
Sono stati anni bellissimi, è stato vivere un sogno ad occhi aperti.
<<Bisogna fare qualcosa>>.
Le presentazioni, le telefonate, le cene, gli amici, i giovani, i vecchi, i funerali, il cielo stellato, il balcone meraviglioso di via Bianchini con i sorrisi di Delia, la piccola Nina sempre in bilico, i nostri piccoli grandi giovani Alessandro e Domenico. I discorsi infiniti che iniziavano all'Osteria del Sole, poi in Feltrinelli, e finivano la notte a casa mia o a casa di Sante.
Quelle scale di via Bianchini erano la porta per un altro mondo, fatto di solidarietà e compagni veri, e tornare a casa con addosso ancora gli odori delle splendide cene, cullati dal vino, dal rum Havana, carichi di sogni, parole e libri.
Quanti libri.
L'altro giorno stavamo catalogando forse l'unico lusso che ci siamo mai concessi negli anni, ovvero le centinaia di libri che abbiamo in questa piccola casa dove quasi non c'è spazio per noi.
E almeno la metà di questi libri li abbiamo aperti assieme, consigliati, studiati, sottolineati, discussi, criticati, lodati, diffusi, e abbiamo litigato, fatto pace, giunto a mille conclusioni la metà delle quali sconclusionate.
Libri sono stati per me la base della mia vera militanza, la pietra miliare della mia presa di coscienza, che credevo salda ed invece era immatura. Perchè nella vita di un compagno la formazione è continua, come la lotta. Non si finisce mai di formarsi come compagni, ne di lottare.
Grazie a Sante ho avuto l'onore di conoscere e frequentare persone, compagni dalle quali ho imparato la disponibilità, l'altruismo, la solidarietà e il senso della lotta.
Bruno, Renato, Natalia, Maurizio, Paolo, Gerardina, Antonio, Pasquale, Nicola, Prospero e tantissimi altri compagni che han fatto ritorno al villaggio rendendolo un posto degno di essere vissuto.
Grazie a Sante quando sono stato arrestato non ho temuto per me neppure per un attimo. E appena tornato a casa, Sante era lì, con Delia, ad abbracciarmi.
Ricordo ogni attimo dei mille passati in un decennio assieme, dai (troppi) funerali alle partite a briscola serali a Giugnola, alle serate a parlare di politica e di vita con i bravi ragazzi, alle telefonate a parlare di Juventus, alle sortite assieme a Mola, a Polignano, a Pantanagianni, a Montalbano, a Roma (eh Robertì?), a Firenze.
Come si può raccontare l'essenza, la densità, l'amore di una lunga amicizia cruda, forte e talvolta anche crudele, di una complicità in un mondo dove si sono perse le coordinate e si è solo ciò che si appare?
Molti ricordano Sante come un bandito, un poeta, un oste, un compagno, un irriducibile, un brigatista, un nappista, un proletario prigioniero, il più anarchico dei comunisti, il più comunista degli anarchici, un ribelle, uno scrittore.
Per me è stato semplicemente il mio migliore amico.
E non so cosa resta di sè stessi quando il proprio migliore amico va via per sempre.
Non lo so.
Mia madre una volta disse a Sante:
<<Tu per lui sei come un padre putativo>>.
Io ero terribilmente innervosito da questa frase perchè io ho l'immensa fortuna di avercelo un padre che è stato il mio primo compagno e di lui ho una stima immensa come padre e ancora oggi come compagno.
Sante semplicemente le rispose:
<<Al massimo un fratello maggiore>>.
Si, un fratello maggiore altruista e generoso.
Io dall'alto del mio metro e ottantacinque e dei novanta chili di peso credevo di essere il più forte fosse possibile proteggerlo, averne un minimo di cura.
E invece è sempre stato lui a tutelarmi, a prendersi cura di me.
Ad essere il più forte. Di tutti.
Di tutti noi, di tutti i compagni giovani che l'hanno conosciuto.
<<Giovane, bisogna fare qualcosa>>.
E ora Sante io vorrei non sapere più nulla di nulla, non aver letto niente, non aver mai conosciuto nulla e nessuno, non aver mai militato, attaccato manco un volantino e poter rientrare al Mutenye e trovarti li al bancone con la camicia a scacchi aperta sul collo, gli occhi azzurri come il mare e quel mare di capelli bianchi di saggezza, la tua voce rotta e profonda di cicatrici, dolore e speranze.
E, come succedeva oltre dieci anni fa, tornare quel ragazzo che con gli occhi spalancati assorbiva ogni tua parola come un foglio bianco poroso assorbe l'inchiostro di una penna generosa.
Sante mi manchi e non posso più dirtelo ma solo scriverlo nel vento dove a nessuno interesserà niente e dove tutto viene distrutto dal vuoto esistenziale.
Sante, mi sento solo come mai prima d'ora.
E oggi te lo ammetto, non so più cosa fare. 
 

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Ultimo aggiornamento ( Venerdì 26 Marzo 2021 10:09 )  

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